Wlodek Goldkorn, la Repubblica 11/6/2014, 11 giugno 2014
“LA LETTERATURA SALVERÀ L’UCRAINA DALLA FEROCIA”
[Intervista a Yuri Andrukhovych] –
Yuri Andrukhovych è uno scrittore nato 52 anni fa. Vive in Ucraina, Paese che da cent’anni è l’epicentro della catastrofe europea. L’Ovest, la Galizia, dove una volta abitavano polacchi, ebrei, ucraini e che faceva parte dell’Impero austro-ungarico e successivamente della Polonia, è stato teatro dei pogrom e dei più brutali tra gli episodi della Shoah, per poi essere annesso all’Urss. Ad Est negli anni Trenta si consumò un altro genocidio: tre milioni di contadini fatti morire di fame per volontà di Stalin. Oggi, l’Ucraina vive un conflitto che la oppone alla Russia. E allora come si fa a fare letteratura e ad aver fiducia nel potere della parola in un luogo come questo, dove la storia ha spesso oltrepassato i confini di ogni immaginazione umana?
Andrukhovych, oltre a essere un autore di culto in Europa centrale (da noi ha pubblicato un solo romanzo Moscoviade con l’editore pugliese Besa), è attivista del movimento democratico del Maidan. Risponde quindi partendo dalla cronaca e dalla politica. Il 25 maggio è stato eletto presidente Petro Poroshenko. «Io l’ho votato», dice. «È un filoccidentale e non è estremista. Sarà capace di trattare con il Cremlino. Ma preferisco parlare di letteratura. E della Galizia dove sono nato e che amo raccontare».
Nei suoi libri lei inventa una Galizia che non esiste se non come luogo dell’anima; nostalgico sogno di una pacifica convivenza tra culture, lingue, fedi.
«Esiste, invece. Ma oggi è parte del contesto ucraino: è fucina di idee per il futuro. È il nostro Piemonte. Ma questo ha a che fare con le tracce dell’Impero asburgico. Leopoli, la capitale della regione, è la mecca del turismo interno. La gente viene dall’Est per vedere una città occidentale. L’aura di questo luogo rende possibile un discorso democratico e multiculturale».
La città però è cambiata. Gli ebrei sono stati ammazzati, i polacchi cacciati via. È arrivata gente nuova, ucraini dalle campagne.
«La sua anima è la stessa. Questione di patriottismo locale. Anche da immigrati ci si identifica con la storia, l’architettura, la tradizione del luogo in cui si vive».
Lei è nato in una città asburgica, la polacca Stanislawow che ai tempi sovietici ha cambiato nome in Ivanofrankivsk, in onore di un poeta ucraino.
«La gente usa ambedue i nomi. Quando a febbraio stavamo assaltando la sede dei servizi di sicurezza del passato regime, la gente urlava: “Onore e gloria agli eroi di Stanislawow”. Nel nome sta l’onore della città. Nella nostra memoria collettiva ci sono decine di lingue e dialetti».
E Kiev, la capitale dell’Ucraina ma anche culla dello Stato russo, cosa è?
«È una città eterna. E le città eterne non possono avere un’unica identità. A metà dell’800, la maggior parte della popolazione colta di Kiev parlava il polacco meglio del russo. Però già alla fine del secolo Kiev era russificata, mentre c’erano solo due salotti buoni in cui si parlava l’ucraino. Oggi nella città si usa sia il russo che l’ucraino. E bilingue è stata anche piazza Maidan: là non abbiamo difeso una lingua, ma la libertà e l’indipendenza nazionale. A chi dice che l’Ucraina è divisa tra i russi e gli ucraini, rispondo: non esiste un problema etnico nel mio Paese, è solo una certa politica a voler rendere ideologici istinti di potere brutali».
C’è però una tradizione di ferocia in Ucraina. Nel 1941 quando entrarono i tedeschi molti ucraini hanno massacrato gli ebrei in modi raccapriccianti. Nella civilissima Leopoli sono successe cose inenarrabili.
«Trovo orribile che queste storie non facciano parte del dibattito pubblico. Dobbiamo chiedere scusa agli ebrei. Ma le brutalità commesse oggi non c’entrano con quella storia».
Ne è sicuro?
«Forse è una questione del Karma. Un peccato senza punizione né pentimento torna sotto forma di altra violenza, in un contesto diverso».
In Ucraina abitava il Messia. Qui è nato il hassidismo; l’idea che la redenzione sia vicina. Qui esistevano migliaia di sinagoghe. Cosa è rimasto?
«Luoghi pieni di un silenzio assordante che interpella noi tutti. Da studente andavo in palestra in una ex sinagoga a Leopoli. E sapevo che l’aula magna dell’Accademia medica a Stanislawow era una ex sinagoga. In un mio libro , Lessico delle città intime , parlo delle macerie della sinagoga a Ostrog. Intorno ci sono graffiti blasfemi e simboli nazisti. E poi, a Stanislawow, dove abito, nel burrone dove ebbe luogo il massacro degli ebrei, i sovietici hanno realizzato un lago artificiale. Da bambino ci andavo a nuotare».
Nei suoi libri lei parla pochissimo di “holodomor”, la carestia, provocata da Stalin.
«A un certo punto le autorità del nostro Stato hanno cominciato a costruire monumenti alle vittime. Quei monumenti sono stati oltraggiati proprio nelle località dove “holodomor” ha colpito più duramente. Come se la popolazione volesse negare la storia o non volesse conoscerla. Sembra la vergogna delle vittime. C’è però un’altra ipotesi: quei luoghi sono oggi abitati dagli eredi di coloro che sono stati portati lì da altre parti dell’Urss per vivere nelle case di chi era morto. Io non li condanno, li capisco».
Ora l’Ucraina è in conflitto con la Russia. Dai suoi libri si deduce però che lei ama la Russia.
«Amo la letteratura russa. Posso recitare a memoria le poesie di Lermontov. E mi dispiace sentirmi impegnato nella promozione della mia lingua a scapito del russo».
Può la letteratura redimere il mondo e gli umani?
«Sì. È uno strumento di resistenza. Può resuscitare chi non c’è più, e può restituirci il mondo degli sconfitti. Pensi a Bruno Schulz, ammazzato da un Ss nel ghetto di Drohobycz. Era un modesto insegnante. Ha scritto romanzi che allora pochi erano in grado di apprezzare. Ma oggi è considerato un maestro dai più grandi scrittori viventi. Ha cambiato la maniera di raccontare lo spazio e il tempo. Era capace di farlo, perché abitava negli stessi luoghi dove fino alla catastrofe dimorava, come dice lei, il Messia».
Wlodek Goldkorn, la Repubblica 11/6/2014