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 2014  giugno 11 Mercoledì calendario

LO SCENARIO


Nell’aprile del 2004, un gruppo di leader della guerriglia si riunì a Falluja, nell’ovest dell’Iraq, «per valutare la situazione» della campagna militare e discutere dei «recenti successi». Le conclusioni, ricordava Abu Anas al-Shami, un religioso giordanopalestinese che era il consigliere religioso del gruppo ed era presente alla riunione, furono tutt’altro che incoraggianti. «Ci siamo resi conto che dopo un anno di jihad non abbiamo fatto nessun progresso territoriale», scrisse Abu Anas in un diario pubblicato su internet qualche mese dopo. «Non avevamo nemmeno una palma dove stare, nessuna casa in cui rifugiarci e stare in pace fra i nostri». I leader jihadisti che parteciparono a quella riunione erano del parere che la strategia seguita fino a quel momento aveva «fallito
clamorosamente» e che ne servisse una nuova. Invece di fare affidamento su chiamate alle armi diffuse attraverso la propaganda per mobilitare e radicalizzare i fedeli, c’era bisogno di territorio, fortificazioni, bunker: insomma una base da usare come casa, rifugio sicuro e naturalmente trampolino di lancio per ulteriori conquiste una volta terminata la fase difensiva immediata, che paragonavano alle traversie iniziali dello stesso profeta Maometto con il suo ristretto gruppo di seguaci. «Perciò è stato deciso di fare di Falluja un rifugio sicuro e inespugnabile per i musulmani e un territorio pericoloso e inviolabile per gli americani, che vi entreranno pieni di terrore e se andranno sconvolti, schiacciati sotto il peso dei loro morti e feriti», scriveva Abu Anas, che sarebbe morto poco tempo dopo.
Dieci anni dopo, gli eredi diretti di Abu Anas e compagnia, lo Stato islamico di Iraq e del Levante (Isis) controllano quel territorio, che da oggi include non solo Falluja, nelle mani dell’Isis da diversi mesi, ma anche la città di Mosul, poche ore più a nord. Abu Anas ne sarebbe contento.
Le cause immediate del successo dell’Isis sono semplici. C’è il fermento del conflitto in corso in Siria, con le sue ricadute ideologiche e imitative nel confinante Iraq, ma soprattutto c’è la cocciuta capacità del leader del Paese, Nuri al-Maliki, di alienarsi le simpatie della minoranza sunnita, spingendola a insorgere contro le autorità, il Governo, l’idea stessa di nazione e offrendo all’Isis il margine di manovra necessario per assumere di fatto il controllo di circa un quinto del Paese.
In ballo non c’è solo l’Iraq, ma il futuro dell’estremismo islamista a livello mondiale. E quello che sta succedendo fornisce indicazioni sul futuro di un fenomeno con cui abbiamo imparato a convivere, ma che ancora rappresenta una minaccia importante.
Questa minaccia è stata messa in evidenza nelle ultime settimane: un attentato «isolato» contro un museo ebraico in Belgio, un attacco contro il principale aeroporto di Karachi, violenze continue in Siria, azioni contro consolati e candidati alla presidenza in Afghanistan, voci allarmistiche in Egitto, scontri armati in Libia e il caos permanente provocato da Boko Haram in Nigeria. Per ampiezza e intensità, le violenze ricordano alcuni dei giorni più bui dell’ultimo decennio (più o meno il periodo in cui Abu Anas scriveva il suo diario da Falluja), quando il pericolo sembrava chiaro e immediato in quattro continenti e anche più.
Ci sono tre differenze importanti con quell’epoca, ma sono differenze positive e negative al tempo stesso.
La prima è che il «nocciolo duro» di Al Qaeda non esiste più. Ayman al-Zawahiri, il veterano della jihad di origine egiziana che guida l’organizzazione da quando Osama Bin Laden è stato ucciso, è ancora vivo, ma la sua influenza sul movimento globale dell’estremismo islamico è ai minimi storici. I funzionari dei servizi di intelligence occidentali si vantano, e non a sproposito, che Al Qaeda è stata “scavata” dai ripetuti attacchi con i droni, e che oltre a questo ha anche perso molta credibilità se si considera che sono anni che non riesce a mettere a segno nessun attentato di rilievo. La seconda differenza importante è che, a differenza che nel 2003 o nel 2004, le masse del mondo islamico ormai guardano con ostilità al radicalismo. Molti non si ricordano della simpatia, dichiarata e non, che circondava Bin Laden e i suoi seguaci negli anni successivi all’invasione dell’Iraq in tutto il mondo islamico, dal Marocco alla Malaysia. Quella simpatia è drasticamente scemata di fronte alle violenze locali in una serie di Paesi a maggioranza musulmana nel periodo tra il 2005 e il 2007, e da allora non ha più ripreso slancio.
La terza differenza, che è la più negativa, è che ora c’è la Siria. L’enorme impatto di questo conflitto irrisolvibile comincia a diventare chiaro soltanto adesso. Nel cuore del mondo arabo, e vicino all’Europa, la battaglia sanguinosa in corso in Siria rappresenta un fattore dirompente di enormi proporzioni, capace di stimolare il reclutamento e l’attivismo dei jihadisti in tutta la regione e non solo.
Oltre alle differenze ci sono anche tre importanti somiglianze con il passato. La prima è che, se è vero che il nocciolo duro di Al Qaeda in gran parte non esiste più, è vero anche che sopravvive ancora un’intricata rete terroristica. E anche se l’ideologia qaedista è ormai screditata in buona parte del mondo islamico, conserva una capacità di attrazione sufficiente a garantire un numero importante di militanti e terroristi ancora per molti anni. La seconda somiglianza è che sta emergendo una nuova generazione di militanti islamisti, come successe alla fine degli anni ‘90. E questo vale anche per le nazioni europee (Italia compresa), oltre che per l’Egitto, la Libia, l’Iraq o il Pakistan. La terza somiglianza è che l’ideologia radicale continua a dimostrare un’ottima capacità di far leva sulle condizioni locali, quando sono propizie. Lo si vede nel Sahel, e lo si vede, di nuovo, anche in Europa, dove “lupi solitari” che vivono ai margini culturali e sociali della società probabilmente continueranno a rappresentare un problema per le forze di sicurezza.
L’ideologia estremista ha già conosciuto un dibattito interno tra i fautori di una strategia di acquisizione territoriale (una guerra di posizione, in un certo senso) e quelli che preferiscono una campagna di radicalizzazione che nelle intenzioni dovrebbe condurre a una “jihad senza leader” globalizzata (una cosa che si potrebbe definire come guerra di manovra). Al momento sembra che stiano prevalendo i primi, che adesso sicuramente si troveranno a fare i conti con il classico problema che assilla i gruppi estremisti da decenni: come riuscire a conservare i territori conquistati senza alienarsi le simpatie della gente del luogo. È il problema che un decennio fa portò alla sconfitta di Abu Anas al-Shami e del resto di Al Qaeda in Iraq. Molti segnali spingono a ritenere che oggi gli islamisti siano molto più consapevoli del rischio di perdere il sostegno della popolazione. La storia recente indica che finiranno inevitabilmente per attirarsi reazioni via via più ostili. Ma la storia non sempre ci azzecca. Mosul sarà un banco di prova. E la posta in palio è alta.
(Traduzione di Fabio Galimberti)

Jason Burke, la Repubblica 11/6/2014