Richard Warren Lewis, Playboy 5/2014, 11 giugno 2014
I GRANDI CLASSICI DI PLAYBOY – [NEL 1968 PLAYBOY INCONTRA PAUL NEWMAN]
Leggendari idoli maschili di Hollywood se ne sono ormai andati; i potenti nomi al box-offce di Clark Gable, Humphrey Bogart, Tyrone Power e Gary Cooper sono ricordati in gran parte per la loro eredità di celluloide al “The Late Show”. E altre eroi di quella generazione come Cary Grant, che non ha fatto un film in tre anni, sono vecchi abbastanza per la pensione. Quasi per impostazione predefinita, Paul Newman si trova quindi ora da solo come la star maschile americana del cinema.
Negli ultimi mesi hai passato quasi ogni fine settimana a fare propaganda per Eugene McCarthy, senza sosta e per tutto il Paese. Che cosa ti ha spinto a interessati in questo modo alla sua causa?
Ho sempre apprezzato McCarthy, ma l’ho ammirato ancora di più quando si è candidato contro Johnson. Poi sono stato chiamato dal suo gruppo. Mi hanno chiesto se ero interessato a una collaborazione, così ho esaminato i suoi risultati elettorali. Ero così stufo dell’amministrazione corrente che non ho potuto fare a meno di accettare di lavorare per lui. Ho scoperto che è una persona impegnata e molto coraggiosa. C’è voluto coraggio per mettere le carte in tavola e opporsi a un Presidente che apparteneva al suo stesso partito politico. Ci vuole sempre coraggio per mettersi in prima linea, quella di tiro. Qualcuno ha detto che noi americani avremmo dovuto rivedere la nostra posizione in Vietnam, qualcun altro che doveva esserci un’alternativa alla politica di guerra dell’amministrazione Johnson, ma lui è stato l’unico che ha osato mettere in gioco la sua carriera politica sulla base di quello in cui credeva. Da quel momento, molti altri si sono uniti al coro di protesta ma McCarthy è stato il primo. Siamo davanti a un uomo disposto a verificare la teoria democratica: Se il governo appartiene veramente al popolo e, poi, è fatto dal popolo? Quando ha vinto nel New Hampshire e l’amministrazione ha trasformato la linea dura in una negoziazione di pace, ha dimostrato che è ancora così.
Che cosa dici agli elettori di McCarthy in campagna elettorale?
Gli parlo del coraggio di un uomo. Gli racconto della sua dedizione e della sua integrità di senatore. Gli spiego che le sue credenziali sono migliori di quelle di chiunque altro. E gli dico che può farcela: dopo tutto, non ha perso un’elezione in vent’anni.
Hai esaminato bene i suoi risultati al Senato?
Abbastanza bene da sapere che sta dalla parte dei lavoratori e con il movimento dei contadini, ed è contro la guerra in Vietnam.
Sai che ha votato per conservare il tanto dibattuto indennizzo sullo sfruttamento petrolifero?
No, non lo sapevo.
Molti commentatori politici ritengono che la sua performance come legislatore sia stata alquanto mediocre. Come rispondi a quest’accusa?
Io, invece, credo che si sia dato molto da fare. Ha co-sponsorizzato molte delle sue principali attività, sia all’interno della Commissione Affari Esteri che nella Commissione Finanze del Senato, e ha fatto di tutto per spingere i vari organismi a esaminare politiche alternative. L’influenza del senatore McCarthy sul Senato è stata considerevole. Forse non sarà un tipo brillante, ma questo non sminuisce il suo contributo.
A parte la posizione sul Vietnam, che cosa ti fa pensare che sia un uomo di coraggio?
È stato uno dei pochi uomini pubblici che abbia mai osato affrontare Joe McCarthy al culmine della sua carriera ed è stato il primo al Congresso ad aver avuto il coraggio di discutere con Joe. È forte, interessato, riflessivo, ed è una persona piacevole. La cosa straordinaria di Gene McCarthy è che lui è tanti uomini insieme e tutti di grande profondità. È storico, internazionalista, economista ed è anche un poeta, il che non guasta. Ti affascina anche il solo vederlo camminare in una stanza. La sua presenza non ammutolisce né elettrizza la gente, ma quando comincia a parlare, è magia assoluta. Nel giro di pochi minuti, incute rispetto e ammirazione, ed è quel tipo di rispetto che si ottiene senza scalpitare, senza doversi imporre. Quanto sarebbe bello avere di nuovo un uomo elegante e corretto alla Casa Bianca, qualcuno che non faccia parte della politica d’immagine, della macchina politica. Un uomo che non deve niente a nessuno.
Come realista politico, saprai che le probabilità contrarie che quest’uomo vinca la nomina del suo partito sono molto alte.
Be’, penso che una speranza concreta ci possa essere, perché s’intuisce che i meccanismi stanno cominciando a sgretolarsi. I capi di partito non sono più in grado di mantenere la loro posizione. Non credo che l’approvazione di uno come Walter Reuther significhi qualcosa per la gente. E poi è in arrivo una nuova fase di apertura e diritto al voto per delega.
Nel 1964, hai sostenuto Lyndon Johnson ad Atlantic City, facendo il maestro di cerimonie al raduno dei Giovani Democratici alla Convention Hall (lo storico centro congressi di Kansas City, nel Missouri, che ospitò nel 1900 e nel 1928 importantissimi congressi nazionali democratici e repubblicani, ndt). Hai anche organizzato un evento di raccolta fondi con Lynda Bird Johnson nella tenuta Ford di Long Island. Cosa ti piaceva di Johnson allora?
Ho sostenuto Johnson nel 1964 perché pensavo che fosse il migliore fra i due candidati, ma questo non significa che lo ritenessi l’uomo migliore per quell’incarico. Il mio voto e il mio sostegno nei confronti di Johnson erano in realtà una manifestazione di protesta contro le politiche di goldwater ma quel voto e quel coinvolgimento non significano niente. Come dimostra la storia, da un voto negativo non può venir fuori niente di buono.
Come consideri Johnson adesso?
La sua campagna politica nel 1964 prevedeva la sospensione della guerra in Vietnam e, inoltre, lui si diceva preoccupato per le agitazioni nelle nostre città. All’epoca, sembrava davvero migliore rispetto al signor Goldwater. Comunque mi sono disilluso presto su Johnson, soprattutto per la sua politica sul Vietnam, una politica così ambigua che adesso ci sarà difficile avviare una negoziazione di pace e ottenere fiducia dalla parte avversa. O dalla nostra, per quello che serve.
Che ne pensi della campagna portata avanti da Kennedy?
Non credo serva a molto portare avanti una campagna basata sulle insinuazioni e sull’offesa per ottenere consensi. Penso anche che sarebbe potuto entrare in gara con più garbo e che ci sia qualcosa di un po’ troppo teatrale nella tecnica oratoria di Bobby: lo è addirittura la sua presenza. Però suppongo che dovrei essergli grato per questo. Lo sapevi che per il personaggio di Harper mi sono ispirato a Bobby Kennedy? Il modo in cui lui ascolta, almeno quella volta che l’ho visto, è molto particolare ed ha in sé qualcosa di strano. Sembra quasi distratto. Se non lo guardi con attenzione, puoi pensare che non ti sta ascoltando. Non è che non instauri un contatto, anzi lui è un tipo pronto, intelligente. È solo che proprio non ti ascolta. Riflette e valuta tutto di continuo e, mentre si sta parlando, lo vedi pensare a quello che deve dire per ribattere. Cerca di mettere sempre l’avversario alle strette. Ho pensato che fosse una cosa troppo complicata.
In molti matrimoni tra attori, ogni mattina, quando ci si alza, cominciano le rivalità. L’approvazione di Joanne da parte dell’Accademy vi ha mai causato problemi?
No, ma sai cosa mi piacerebbe? Vorrei ricevere almeno sessantanove nomination – penso sia un numero interessante – e, all’età di novant’anni, trascinarmi sulle gambe, piegato dall’artrite, per andare a ritirare l’Oscar. Sarebbe molto elegante. È bello avere una nomination ma credo che la mia vita rimarrà incompleta senza l’Oscar.
Considerando la tua avversione per la pubblicità, è piuttosto strano che tu e Joanne qualche anno fa abbiate accettato di eseguire il rituale Hollywoodiano di imprimere le vostre impronte al Grauman’s Chinese Theater su un blocco di cemento.
Nessuno è perfetto, però io sono stato l’unico ad averlo fatto scalzo. È stato bello starsene lì a sentire il cemento tra le dita dei piedi. Quando finirò in una casa di riposo per attori e mi avranno dimenticato, potrò sempre ripensarci e raccontarlo. È risaputo che, nonostante tu sia contrario a buona parte dei metodi hollywoodiani, ti prepari molto e fai ricerche approfondite prima di metterti davanti alla telecamera.
Discuti prima con lo sceneggiatore la caratterizzazione di un personaggio o questo ti viene direttamente affidato spiegandoti come devi interpretarlo?
Non chiedo mai di costruire un personaggio in base alle mie esigenze. È un disastro quando cominciano a scrivere una parte adattandola all’attore. Se uno si vuole mettere in vetrina, può sempre andare a Las Vegas. Però, a volte, chiedo agli sceneggiatori di adattare una scena a un obiettivo specifico. Come nello Spaccone, nella scena sulla collina, nella quale Eddie spiega come dev’essere un giocatore di biliardo. Sentivo che quelle parole dovevano essere rivolte a chiunque – muratore o giocatore di baseball – sarebbe voluto diventarlo. Non importava chi fosse, ma qualsiasi uomo si sarebbe dovuto sentire coinvolto. Non doveva essere un segretario di Stato; se uno fa una cosa con passione, bene, allora vuol dire che è valsa la pena farla.
Ti butti sempre così anima e corpo in una parte?
Ci provo. Prima di girare Hud il Selvaggio, mi sono chiuso in una baracca in Texas per dieci giorni. Per L’Oltraggio, ho vissuto in Messico per due settimane. Ho sempre cercato di calarmi nel personaggio il più che potevo, di sentirlo, di farlo mio. Per Detective’s Story, invece, mi sono solo ubriacato. Avevo letto un paio di volte il copione e, durante il volo da Liverpool a New York, lo lessi ancora. Buttai giù un sacco di note, tipo “qui battuta più divertente” o “com’è la sua macchina?” per farmi un’idea visiva del personaggio che avrei dovuto interpretare e del contesto in cui avrebbe dovuto inserirsi. Cominciai a bere e scrivere note alle 8:45 e alle 10:30 ero ormai sbronzo, ma avevo un sacco di appunti. Alle 12:50 mi scoppiava la testa, ero completamente fatto. Riuscivo a malapena a leggere quello che avevo scritto, ma andai avanti. Mi ricordo che scarabocchiai “Chewing gum” e “parte staccata”. L’85 per cento circa dei miei appunti andarono bene. Perciò, posso dire che quel personaggio si è sviluppato sul volo da Liverpool a New York. Essere ubriaco mi ha aiutato ad avere una certa razionalità.
Alcuni psichiatri sostengono, come di certo saprai, che gli attori sono in fondo persone insicure, in perenne crisi d’identità, che hanno bisogno di ruoli da vivere perché non hanno una loro vita. Sei d’accordo con quest’analisi?
Quando ho deciso di fare l’attore, non ero “alla ricerca della mia identità”. Non avevo il cerone nel sangue, volevo solo scappare dall’attività commerciale di famiglia, e non ci vedo niente di romantico. Recitare è stata una bella alternativa ad una vita che non volevo fare, ma sono d’accordo sul fatto che la maggior parte degli attori che conosco sono persone incasinate. E lo sono a ragione, soprattutto quelli che ce l’hanno fatta e poi sono spariti per colpa di un pubblico difficile e incostante. Se uno vuole fare l’avvocato, inizia in uno studio legale e arriva al secondo gradino e può essere quasi certo che, anche se non raggiungerà il decimo, anche se arriverà solo al quarto o al quinto, sarà ugualmente un avvocato competente e che, se al limite rimane un mediocre, potrà comunque aggrapparsi al gradino numero due fino all’età della pensione. La carriera di un attore assomiglia molto a quella di un politico. Può anche essere un concorrente molto forte e all’improvviso, magari non per colpa sua, ritrovarsi fuori gioco. È per questo, forse, che a volte si può diventare insicuri.
E tu che gradino stai raggiungendo in questo periodo?
Non so dirti se ne sto raggiungendo qualcuno. Gli amici mi dicono che è fantastico che io stia per fare il grande passo, dalla recitazione alla regia. A dire il vero c’è ben poca differenza tra le due cose, sono due facce della stessa esperienza. Al suo meglio, il rapporto tra attore e regista coinvolge l’utilizzo di due menti invece che di una soltanto. Se funziona, è un dare e avere, dove le azioni si confondono in vista del risultato migliore. Penso, però, che il regista riesca a ottenere, nell’obiettivo del raggiungimento della migliore qualità del film, quello che un attore non può: capire i suoi attori e le relazioni interne dei personaggi, l’economia della recitazione, l’analisi della sceneggiatura, trovare le battute principali e offrire agli attori una presenza fisica. Però troppi registi cercano di dominare il mezzo cercando di tirar fuori l’impatto emotivo da effetti meccanici. Ho visto molti casi in cui la rigidità dell’approccio tecnico ha privato il pubblico di quelle che avrebbe potuto essere scene memorabili. Penso che un regista possa rafforzare certi effetti con un uso interessante della telecamera e un raffinato utilizzo della musica, ma i trucchi della telecamera e una buona partitura musicale non aggiungano nulla all’arte cinematografica in sé.
Che cosa fai per difendere la tua privacy?
Abbiamo un appartamento a New York, dove ogni tanto ci rifugiamo. E poi c’è la casa di Beverly Hills, dove abbiamo il biliardo, lo spogliatoio e una piscina, e dove andiamo spesso per rilassarci. Ricordo che siamo scappati subito lì quando ho perso l’Academy Award per Lo Spaccone. Sono stato malissimo, perché pensavo che il vecchio Eddie fosse un personaggio piuttosto originale. In ogni caso, da terapeuta perfetta, Joanne mi ha letteralmente trascinato in garage. Avevamo un piccolo rifugio, fuori, lontano dalla famiglia e lei mi ha detto queste parole: “Adesso ci prendiamo caviale e champagne e ci mettiamo a guardare un po’ di robaccia in tv”. Non l’abbiamo nemmeno acceso.
Ad aprile Marlon Brando ha annunciato che si sarebbe ritirato dal cinema – abbandonando il ruolo da protagonista nel film “Il Compromesso” – per dedicarsi ai problemi dei negri. Che cosa pensi di questa sua decisione?
Che sono orgoglioso di lui. Penso che stia cercando di dimostrare che i bianchi hanno una seria e sincera voglia di combattere per la giustizia razziale.
Pensi che ci riuscirà?
Non so cosa si possa offrire più del proprio tempo. Brando ha garantito il suo impegno totale nell’aprire una linea di comunicazione comune fra razze. Forse potrà essere una sorta di collegamento tra la comunità bianca e quella nera militante. La comunicazione è sempre stata un grosso problema.
Cosa pensi dell’assassinio di Luther King?
Be’, è piuttosto evidente che si sia trattato del gesto di un razzista bianco, ma, anche se così non fosse, il fatto ha avuto conseguenze terribili. Se l’assassinio diventa una forma di espressione politica nel nostro Paese, credo che sia ora di rivedere tutta la nostra struttura sociale e analizzare la cosiddetta “rivalutazione agonizzante”. Recentemente, qualcuno mi ha raccontato di quando sua figlia, di quattro anni, è entrata in soggiorno mentre seguiva la scena del funerale di Churchill. La bimba gli chiese cosa stava guardando e lui rispose che era il funerale di un grande uomo. Lei guardò lo schermo e poi s’informò su chi gli aveva sparato. Dio mio, ma a che punto siamo arrivati?
Quali sono le tue ossessioni?
La più grande è la coazione a produrre e a fare sempre meglio: per ogni progetto, è fuori misura. Le altre sono la mia incapacità di sentirmi in diritto di poter avere dei consensi, anche quando sono meritati, e di essere in grado di collocare la funzione critica nella giusta prospettiva. Un altro problema è che, come altri attori, vivo per buona parte una vita di fantasia. Funziona molto bene per la recitazione, ma vivere nel mondo dei sogni non ti rende concreto nella vita personale e professionale. Alla fine è tempo sprecato.
Pensi che realizzerai mai qualcuna di queste cose nella vita reale?
No, ma vorrei essere ricordato come uno che ha cercato di essere parte del suo tempo, di aiutare le persone a comunicare tra loro e di fare qualcosa di buono nella sua vita. E anche come uno che ha provato a migliorarsi come essere umano, a non essere arrendevole e a non giocare a fare il poliziotto. Uno che ci ha provato, ed è questo ciò che conta.
Traduzione Claudia Verardi