Filippo Brunamorti, Playboy 5/2014, 11 giugno 2014
L’ARTE DEL TRASH
Long Island City, Tromaville. Controluce. Il quartier generale di Troma Entertainment somiglia a un parco giochi scassato che ridisegna fabbriconi e ponti, allucinazioni e fantasmi di una città dove il tramonto giace sottoterra. All’ingresso del più longevo studio di cinema indie, una saracinesca da macellaio macchiata di graffiti – Clash e Beat, Kobra e Sabotaz – sembra non scorrere più verso l’alto. È incastrata. Senza grasso. Forse attende che qualcuno le dica “Azione”. Dalla strada spunta un taxi giallo fiammeggiante. Accosta. La porta si apre. «Benvenuti ai Troma Studios». Una voce distinta, da fuorilegge, loner out. È Lloyd Kaufman, regista, attore, sceneggiatore, produttore, montatore, direttore della fotografia, compositore e, sopra ogni cosa, fondatore (assieme a Michael Herz) e presidente della Troma. Prima di farci entrare, Kaufman amoreggia con alcuni poster di pellicole cult, come “The Toxic Avenger”, “Tromeo & Juliet” e “Terror Firmer”. Ci regala anche qualche siparietto da mattatore, mimando e replicando le sequenze più “sporche” del suo cinema. La cultura anti-Studios passa da qui: mostri gauchisti e armati fino ai denti, tette sbranate da una lama, falli giganti che spuntano da sotto l’ombelico, culi black di periferia spinti tra l’underground e la nouvelle vague, nel deserto da panico squattrinato di filmmakers che fanno il loro film con diecimila dollari. Da 40 anni. L’ufficio di Lloyd è tappezzato di cimeli, gadget, memorabilia, anticorpi degli anni Sessanta e Settanta, che lui apostrofa con ironia “effetto mito”. E di mito si tratta: La Troma è una no-land luccicante che ci trascina lentissimi, curiosi, nell’epopea di film trash, pornazzi di sangue e ciccia in bilico tra spaghetti-western, Fulci e fragranza di orge. Il marcio odore di camp non è decaduto ma più vivo che mai. Lo sanno Quentin Tarantino, Eli Roth, Robert Rodriguez, Bobby & Peter Farrelly, Edgar Wright, imitatori di Troma con la cravatta di cuoio: «Si sono presi le nostre invenzioni a basso costo e il nostro stile, dimenticando la progressiva corrosione dei Troma Studios in preda alla censura e alla crisi» dichiara Kaufman. «Tarantino e Rodriguez non sono tornati indietro ad aiutare i più deboli. Non che fossero obbligati a rivendicarci. Ma restiamo degli outsider».
Lloyd, qual è il segreto di una giostra di cinema contaminata da corpi nudi, Girls School Screamers, liceali trans, milf zombie, mutanti e tossiche?
«Michael Herz ed io siamo partner da 40 anni. Facciamo film perché amiamo il cinema. E facciamo solo ciò in cui crediamo. Ecco cos’è l’arte. L’arte proviene dall’anima, dal cuore, dal cervello, e talvolta dal culo. Siamo stati molto fortunati a poter creare un brand così personale. Troma è una sorta di Disney mutante. Abbiamo fan da tutte le parti del mondo, siamo uno studio di culto. Gli appassionati sono un’arma segreta. “Return to Nuke ‘Em High Volume I”, la nostra ultima produzione, è proiettata in almeno 100 sale; ne visitiamo una per una pur di presentare il film: sono appena tornato da Seattle. E i fan partecipano in massa perché amano il marchio. Nessuna pubblicità, nessun soldo. Solo il dono della parola e Internet. È uno scambio. I fan sono l’unica ragione per cui Troma vive da 40 anni e speriamo duri ancora molto. Il cosiddetto entertainment, oggi, è in mano a ristretti gruppi di diavoli mediatici, conglomerati e corporation. È un club internazionale per addetti ai lavori ed integrati, che cospira contro un cinema meno mainstream e verticale. Là, si richiede unicamente la presenza di vassalli. La sola area d’interesse è un’arte borghese, direi. Se non sei in grado di piegarti a quel tipo di logica, allora non riuscirai mai a penetrare l’imene del mainstream. E semmai riuscissi a penetrare l’imene del mainstream, sarai tu ad essere fottuto».
Che rapporto ha Troma con la censura?
«Uno dei motivi per cui esistono pochi studios cinematografici indipendenti, almeno negli Stati Uniti, è a causa della MPAA, Motion Picture Association of America. Permette tutta quella violenza nei “Die Hard” di Bruce Willis ma con la Troma, per rilasciare un visto censura, il trattamento è differente... Tagliano qualsiasi cosa. In alcune situazioni non ci permettono neppure di inserire gag comiche: distruggono il film».
Violenza e nudità nei Troma Studios sono piuttosto cartoon...
«La violenza della Troma è “Tom & Jerry” o “I tre porcellini”, mentre quella che di solito vediamo nei blockbuster è roba seria. Eppure MPAA non fa niente. Questo perché i big studios portano una montagna di denaro e vanno salvaguardati. L’associazione, guidata da lobbisti, lo sa bene. Così ha spazzato via ogni piccola industria indipendente – durano tutte pochi mesi o qualche anno – eccetto Troma, la sola ad aver toccato i 40 anni».
Quando e come è nato il sogno di Troma?
«La ragione per cui ho iniziato a lavorare in questo settore è perché ho commesso un grave errore: frequentare Yale. Un’università non così buona come intendono far credere, non quanto lo sono certi istituti italiani. Negli anni Sessanta sono stato insegnante, un social worker. Cercavo di rendere il mondo un posto migliore. Pace, amore, tutto quel genere di cose... Ero un insegnante sui generis che addestrava i bambini a dipingere con le dita sulla corteccia di una quercia oppure a costruire bombe senza ordigno e con un volto tatuato sul dorso. Al mio primo anno a Yale mi hanno messo in un dormitorio, ero in stanza con un fanatico di cinema che dirigeva la Yale Film Society. Così ho cominciato a vedere parecchi film in pellicola di autori come Rossellini, Renoir, John Ford, Charlie Chaplin, Buster Keaton, Howard Hawks, Samuel Fuller, Andy Warhol, Stan Brakhage, il più grande visual artist della mia vita. Continuavo a vedere tutti i loro film, li imparavo a memoria. Una notte, l’auditorium a Yale era pressoché vuoto. Proiettavano “Vogliamo vivere!” di Ernst Lubitsch, con Robert Stack, Carole Lombard e Jack Benny, sono rimasto impressionato dalla follia di quell’opera e, al tempo stesso, da come fosse ben costruita. Lì, a Yale, davanti a “Vogliamo vivere!” ho deciso di indirizzare tutto quello che avevo nell’intelletto verso il genere gore. Se volete prendervela con qualcuno per l’esistenza di Troma, andate a imprecare sulla tomba di Ernst Lubitsch. Fateci una pisciata gigante!».
Che cosa insegnavano a Yale?
«Una delle più importanti lezioni a Yale è stata quella sullo scontro tra Darwin e Freud e dello Yin eYang come percorso dell’anti-darwinismo. Il senso dell’essere una guida senza guidare. Riuscire a trovare la bellezza nel dolore. Io credevo, e tuttora credo, nel controllo completo di un film. Poi però mi piace che ogni cosa sia pure disorganizzata, che ci sia improvvisazione e risulti tutto eclettico. È un modo piuttosto Yin/Yang di fare film. Non credo si possa definire la Troma, non le si può affibbiare un timbro. Durante l’epoca d’oro del video eravamo presenti in circa 2000 videoteche in America, con una sezione “Troma” apposita, proprio perché è impossibile catalogarci solo come “horror” o “sesso”. Siamo un mix. Un potage di generi diversi».
A che punto è la distribuzione di opere indipendenti negli States?
«Non esiste distribuzione per i film indipendenti. A meno che tu non sia un concubino delle grandi corporation che, tra l’altro, possiedono stazioni televisive e radiofoniche. Hanno in mano tutti i mezzi di informazione, corrompono critici e testate mondiali. Noi siamo del tutto ignorati. Nessuno sa che esistiamo».
Netflix?
«È inutile. Sta prendendo la via di Rupert Murdoch. È parte di Comcast. Netflix vuole diventare Murdoch. Netflix vuole diventare Silvio Berlusconi! A Netflix non importa aiutare studios indipendenti. Mira ad entrare nel club dell’élìte. Non ci ammazzano, ci ignorano. In Russia, Stalin ha ucciso milioni di persone e nessuno lo sapeva. Ora a Mosca ti prendono il passaporto e non ti danno lavoro. Non ti uccidono più fisicamente: semplicemente, non ti permettono di esistere. Ecco quello che accade con Troma. Oggi siamo apolidi, come raccontava Alan Paton nel suo romanzo».
Molte celebrità sono nate sotto il segno dei film Troma...
«Troma è stato un punto di partenza per parecchi artisti: James Gunn che ha scritto e sta dirigendo “Guardian of the Galaxy”, nel 1996 ha co-diretto “Tromeo and Juliet”; così Vincent D’Onofrio che ha proseguito con “Full Metal Jacket” di Kubrick diventando una star televisiva, idem per i creatori di “South Park”, Trey Parker e Matt Stone, che nel ’93 hanno lavorato a “Cannibal! The Musical”. Questo dimostra che l’arte è quello che più ci interessa. Cerchiamo arte, non omogeneizzati. I grandi studios vi danno cibo per bambini da 100 milioni di dollari o film finto-indipendenti da 20 milioni, come “Juno”, diretti da vassalli di 20th Century Fox... È un film amorevole e divertente, “Juno”, non lo metto in dubbio, ma non cambierà di certo il mondo. “Return to Nuke ‘Em High Volume I” può cambiare il destino del mondo. Un poco».
Che ricordo ha di una produzione israeliana dal titolo “Big Gus, What’s the Fuss”?
«Negli anni Settanta, Michael Herz ed io sfortunatamente siamo incappati nella produzione di un film in Israele, “Big Gus, What’s the Fuss?” appunto. La cosa peggiore che potesse capitare agli ebrei dopo il “Mein Kampf”. È un film orribile. Imbarazzante per essere un “prodotto per famiglie”. Perdemmo il controllo come artisti, anzi, abbiamo venduto l’anima al diavolo. Una lezione che c’è costata tanti soldi. Tra i produttori c’era anche Andy Lack, ex boss di NBC e Sony Music».
Le piacciono i musical?
«Amo i musical. Essendo un uomo gay felicemente sposato adoro anche Barbra Streisand. Quando ero giovane frequentavo spesso Broadway. Mi piacevano Cole Porter, Rodgers and Hammerstein; oggi amo l’opera, Giuseppe Verdi – che in America naturalmente abbiamo rinominato Joe Green – “La forza del destino” è la mia opera del cuore. Nel mio film “Sgt. Kabukiman N.Y.P.D.” ad un certo punto il sergente intona un’aria tratta da “Madama Butterfly”. Ho sempre amato il musical, la commedia, Gilbert e Sullivan... Da ragazzino però non pensavo di intraprendere la strada dello showbiz. “Poultrygeist – The Night of Chicken Dead” si conforma al genere, così come “The Toxic Avanger”, ripreso Off-Broadway in forma di musical con i testi e le melodie di Bon Jovi, Joe DiPietro e David Bryan. È stato trasposto anche in Corea, Canada e molti altri paesi».
Come mai ha esordito proprio con “Rappaccini” nel ‘66?
«Il cortometraggio “Rappaccini” è stato diretto da Robert Edelstein, mio compagno di stanza a Yale. Io gliel’ho prodotto. Tra gli attori c’era Perry King che al tempo era abbastanza noto e lo è ancora. Il corto è basato su un racconto breve di Nathaniel Hawthorne di cui eravamo appassionati. Anni dopo, il regista di “Surf Nazi Must Die”, Peter George, ha scritto e diretto “Young Goodman Brown”, piuttosto costoso, ci fece perdere tanti soldi... Ma resta un grande film tratto sempre da un racconto di Hawthorne».
Che cosa pensa, un cane sciolto come lei, delle accademie di cinema?
«Io non ho frequentato una scuola di cinema. Dopo Yale ne avevo abbastanza dell’istruzione. Il merito dell’università è metterti in contatto con droghe e fumetti. All’università circolavano parecchie strisce Marvel. Ed è così che sono diventato amico di Stan Lee, con il quale ho scritto “Night of the Witch”. I fumetti sono la più grande influenza creativa della mia vita. Avevo scritto un copione anche con Alain Resnais ma Resnais lo ha odiato a morte, e non se n’è mai fatto nulla. Invece di frequentare scuole, ho preferito frequentare registi di talento. Quelli sono stati la mia vera scuola. Inoltre, parlo perfettamente francese e ho letto i Cahiers du Cinéma. Articoli come quelli scritti da Chabrol, Godard e Rohmer... Ricordo, una notte, ero completamento fatto di LSD; in quel momento ho detto no ad un’offerta di lavoro su un set a Los Angeles (si trattava de “Il gufo e la gattina”, con Barbra Streisand e George Segal) e ho preferito l’ingaggio in una piccola società a New York, Cannon Films. Lì ho incontrato John G. Avildsen, una fonte di ispirazione per me. Lavoravo gratis ma imparavo tanto. Ha contribuito alla realizzazione di “Rocky”, sono stato assistente per “La guerra privata del cittadino Joe” e “Il pornocchio”. Lo stesso con John Badham in “Saturday Night Fever”, un’altra palestra».
Che opinione ha lei del panorama italiano?
«In Italia, la Latina film commission mi ha invitato a tenere un workshop di due giorni. Il cinema Aquila a Roma ha proiettato in anteprima “Return to Nuke ‘Em High”. Ho parlato con diversi registi del vostro Paese e affrontano gli stessi problemi che abbiamo qui, negli Stati Uniti. Anche Argento e Bava soffrono. È difficile ottenere fondi, e una volta fatto il film non è semplice distribuirlo. La sola buona notizia è che oggi non c’è più bisogno di avere tanti soldi per girare un medio o un lungometraggio, e ci sono tanti giovani là fuori pronti a fare film con 10.000 euro. Anche in Canada si producono bellissime pellicole con 15.000 dollari. In questi mesi stiamo girando un film in Portogallo con il regista Fernando Alle, si chiamerà “Mutant Blast”, il budget è di circa 25.000. Il nostro canale YouTube vanta un archivio di 250 film da poter guardare senza abbonamento. Trovate anche “Banana Motherfucker”, diretto nel 2011 da Alle che ha creato la maggior parte degli effetti speciali in “Return to Nuke ‘Em High”. Drew Bolduc ha girato “The Taint”, invece, un film brillante, meraviglioso. È politico, sociale, divertente, splatter. Un “Troma-movie” tradizionale ma meglio del solito Troma. È la Nuova Troma. Ecco, sta arrivando una generazione di giovani autori che può davvero cambiare le cose. Non guadagneranno tanto da permettersi la cocaina e le macchine extra-lusso che circolano a Hollywood ma possono lasciare un’impronta nel mondo. E sopravvivere».