Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  giugno 11 Mercoledì calendario

2009-2014 IL PD STRAPPA IL NORD ALLA DESTRA


[mappe in allegato]

Le due mappe dell’Italia che presentiamo qui sopra rappresentano due fotografie dei governi dei 110 capoluoghi di provincia in tutta Italia: la prima scattata nel 2009, in pieno governo Berlusconi; la seconda ieri.
Naturalmente il turno amministrativo del 25 maggio con i ballottaggi dell’8 giugno ha investito solo una piccola parte dei capoluoghi, 29. Per tutti gli altri dunque si fa riferimento alle elezioni che si sono succedute in questi cinque anni, come Milano, Torino, Napoli e Bologna nel 2011 e Roma nel 2013. Ma in questi giorni si è votato nel complesso per 214 comuni con più di 15mila abitanti che vanno tenuti in considerazione (164 al centrosinistra, 41 al centrodestra, 2 alla Lega e 3 al M5s). Le due mappe parlano chiaro. In questi anni, non solo in questa tornata, si è realizzato un progressivo dominio del centrosinistra nei capoluoghi di provincia, con particolare riferimento al Nord. Nel 2014 la mappa del Nord appare quasi tutta tinta di rosso, e il dato comunale non si discosta in modo significativo da quello europeo: Pd primo partito fatta eccezione per alcune macchie verdi nella provincia di Sondrio (dove la Lega prevale), gialle nel sud della Sardegna, in Sicilia e nelle regioni del centro (M5S), e piccole enclave azzurre, a macchia di leopardo tra Piemonte, Lombardia, Campania, Puglia e Sicilia.
Nel dettaglio, per la prima volta il Pd registra complessivamente un consenso più elevato alle europee che alle comunali: quasi un 6% in più in media, come documenta l’Istituto Cattaneo, ed è la prima volta che succede da moltissimi anni, visto che il Pd e i suoi predecessori sono stati tradizionalmente più forti nel voto locale che in quello nazionale. «Se in passato era il “partito dei sindaci” di centrosinistra a trainare il partito nazionale, oggi è il partito dell’ex sindaco di Firenze a trainare elettoralmente gli amministratori locali», dice il Cattaneo. Non dappertutto, come si evince dalla sconfitte Pd di Livorno, Perugia, Padova e Potenza. Ma anche in questa città, in realtà, alle europee il Pd era stato largamente vincente. «Al di là delle sconfitte in alcune città dove il centrosinistra governava da decenni, dovute all’usura delle amministrazioni, si può parlare di una nettissima vittoria del Pd», spiega Roberto Weber, ex presidente della Swg. «E bisogna davvero andare molto indietro negli anni per ritrovare un successo simile del principale partito di sinistra.
A fronte dello smottamento del centrodestra, e di un M5s che ottiene pochi successi a livello locale, il Pd si configura come un “partito-nazione”, un “partito-pigliatutti” che allarga il suo blocco sociale molto oltre il perimetro tradizionale». Secondo Weber sono ben 700mila i voti transitati da Forza Italia al Pd alle europee, oltre a un recupero su voti ceduti nel 2013 al M5s e alla fagocitazione della lista Monti. «Oggi spiega il Pd è una forza che si colloca tra centro e centro-sinistra, l’unico partito “moderato” del Paese, grazie a Renzi che ha saputo intercettare mondi che non avevano mai guardato a sinistra». Finisce insomma non solo l’insediamento tradizionale prevalente nelle regioni rosse (Emilia, Toscana e Umbria) ma anche «il blocco sociale composto in primo luogo da pensionati e pubblico impiego». Di qui lo sfondamento al Nord che, a differenza di quanto accaduto in passate tornate amministrative (quando il Pd espugnava comuni tradizionalmente di destra come Como e Monza ma poi non traduceva questo consenso a livello politico), non è legato a fattori locali, ma all’attrazione di ceti produttivi che in larga parte risiedono al Nord. E che scelgono il Pd, a differenza del passato, «non solo nei centri più grandi, ma anche nelle città medie e piccole», osserva Ilvo Diamanti. Un’Italia profonda, di paese, dove non era arrivato neppure il Pd del 2008. «Al di là di singole eccezioni – spiega Weber – c’è una simmetria tra europee e comunali, una sostanziale egemonia del Pd che, tuttavia, paga in alcune città la fine delle rendite di posizione e la maggiore volatilità del consenso».
Secondo Piergiorgio Cornetta, direttore di ricerca del Cattaneo, in questa tornata «per la prima volta a sinistra c’è più un voto per il leader che per il partito, e questo consente di superare i vecchi insediamenti geografia e sociali». «Un voto interclassista», dunque, che tuttavia si presenta come più volatile, «potenzialmente meno stabile e comunque estremamente dipendente dalla popolarità del leader e dai suoi risultati». Come è arrivato, dunque, potrebbe svanire. Secondo Weber non troppo presto. «A mio parere è iniziato un ciclo lungo, e il centrodestra è così malconcio da non avere per anni margini di recupero». Né Weber né Corbetta prevedono per il M5s una reale competitività rispetto al Pd egemonico. Ma nessuno dei due ne sottovaluta il radicamento. «Solo l’incredibile ingenuità della vittoria annunciata per settimane può far pensare a una reale sconfitta di Grillo», dice Corbetta. «Restare sopra il 20%, per un movimento come questo, è una eccezione in tutte le democrazie occidentali. Hanno alzato troppo l’asticella, non avendo capito che era impossibile ripetere l’exploit del 2013. Ma si sono stabilizzati. È possibile che questo sia l’inizio di una progressiva erosione dei consensi, ma non è sicuro e comunque non sarà in tempi brevi». Anche Weber vede nel dato del M5s la rappresentazione di una Italia che c’è, seppur non maggioritaria: «È un’area di radicalità, quella più sofferente per la crisi, e insofferente verso l’establishment. Potenzialmente può arrivare a un terzo del Paese, ma i due terzi sono impermeabili a queste proposte euroscettiche e a questo radicalismo».
Il dato del centrodestra è quello più chiaro: dal 2009 Fi e alleati sono passati da 83 città con più di 15mila abitanti a 41. Fatta eccezione per la vittoria di Perugia (e per i governi leghisti di Padova e Verona), sono fuori da tutte i 20 principali capoluoghi italiani. I numeri del lombardo-veneto sono impressionanti: nel 2009 Pdl e Lega sfioravano il 60% e ora sono al 30; il Pd era inchiodato al 20% e ora arriva al 40%. È qui che il Paese ha cambiato verso.