Marco De Martino, Vanity Fair 11/6/2014, 11 giugno 2014
CHIAMATEMI TRANS
[Intervista a Janet Mock] –
Ogni rivoluzione si porta dietro il suo vocabolario, e siccome il movimento transgender non fa eccezione, Janet Mock mi spiega subito l’importanza del pronome: «Cresciamo pensando che ci siano solo lui e lei, il bambino e la bambina, e alcuni transgender in questa struttura binaria si trovano bene; io, per esempio, mi identifico in una donna, sono una lei. Ma ci sono altri che si sentono più a loro agio inventando altri pronomi: alcuni magari vogliono essere chiamati al plurale, “loro”, invece di lei o lui. E poi ci sono quelli che adottano il termine trans*». Trans asterisco? «Lasciamo perdere, quello è veramente troppo». «Trans*» – lo capirò in seguito – è il termine usato da chi vuole includere in una sola parola tutte le possibili varianti del mondo trans.
Dopo una carriera da giornalista a People, Mock è tra le più visibili portavoci del movimento che ha portato sulla copertina di Time l’attrice trans Laverne Cox, che nella serie Tv Orange Is the New Black (in Italia la vedremo in prima serata a settembre, su Mya) interpreta una detenuta impegnata a rivendicare la propria dose di ormoni per restare donna anche in galera. Redefining Realness, il libro in cui Janet racconta la sua storia, è stato nella classifica dei saggi più venduti del New York Times. Ma lei è diventata la paladina del movimento anche per l’epica discussione sul linguaggio con il giornalista Piers Morgan, che su Cnn l’aveva intervistata riferendosi più volte al suo passato di maschio.
Che cosa c’è di male?
«Il fatto è che io sin da piccola mi sentivo una bambina, anche se la gente mi percepiva come un maschio, e non riconoscerlo significa non accettarmi per quella che sono. La mia identità non ha nulla a che fare con la biologia dei miei organi riproduttivi, e per portare gli altri a prenderne coscienza ho dovuto lottare».
Come la presero i suoi genitori?
«Mi hanno sempre trattato con enorme amore ma erano molto confusi dal mio comportamento, in particolare mio padre che è un uomo molto macho, che era stato nella Marina, che non aveva le parole per capire perché sceglievo di essere femminile in un mondo in cui a essere privilegiati sono i maschi. Ma io mi sentivo una femmina. A tre anni sono finita in sala d’emergenza perché mi ero messa gli orecchini a foro di mia madre, più tardi ai maestri dicevo che volevo diventare una segretaria, perché era l’unico lavoro che immaginavo potessero fare solo le donne».
Che cosa la aiutò?
«Non mi mancavano i modelli di riferimento. Nella cultura delle Hawaii, dove sono cresciuta, il terzo genere è impersonato dal mahu. Una volta era riverito e celebrato, ma anche dopo l’arrivo degli occidentali è accettato. Mahu era il mio insegnante di hula-hoop al liceo, transgender era la mia più cara amica: loro mi davano la sensazione che non ci fosse nulla di sbagliato in me, ma non sono mancati episodi traumatici».
Quali?
«Un ragazzo di 16 anni abusò di me quando ne avevo otto o nove. Anche quello mi aiutò a capire di essere una femmina, perché lui mi trattò come tale. Fu violenza carnale ma lo capii solo più tardi, all’epoca pensai quello che pensano tutti i sopravvissuti a un’esperienza del genere: che usando il mio corpo potevo attirare l’attenzione degli altri, che dovevo vergognarmi di quello che facevo e quindi tenerlo segreto».
Nella sua autobiografia lei racconta del periodo in cui si prostituì.
«Non avevo scelta, era l’unico modo per pagare i medicinali e le operazioni, e lo stesso accade alla maggioranza dei transgender: in una società che ti emargina, fare marchette è il solo percorso di carriera. Ed è per questo che non possiamo continuare a criminalizzare chi lo fa: sono atti non violenti e consensuali, che dovrebbero trovare riconoscimento e dignità».
Lei ora ha una relazione con un uomo: è stato semplice?
«È stato graduale. Ho incontrato Aaron nel 2009, un sabato sera, in un bar. È stato lui ad attaccare discorso, l’attrazione è stata immediata. Dopo qualche appuntamento sono andata a casa sua e gli ho raccontato tutta la mia storia. Avevo una enorme paura di perderlo, ma dovevo farlo. Credo sia stato difficile per lui, si era già infatuato, era confuso, e non era comunque pronto a un rapporto stabile. Dopo otto mesi che ci vedevamo, però, è venuto a casa mia e mi ha detto: “Voglio stare con te, il tuo passato non mi interessa”».
Con i suoi genitori ora come va?
«Mia madre abita ancora alle Hawaii ed è la mia più grande fan. Mio padre, che sta in Texas, a quelli che gli chiedono come fa ad accettarmi risponde: “Janet è mia figlia, non sarai certo tu a dirmi quello che devo fare con lei”».
Che cosa manca da fare sulla strada del riconoscimento?
«Tantissime cose. Leggo questi articoli sui transgender aiutati dai genitori quando hanno solo 14 anni, come se fosse la normalità, come se tutti nascessero bianchi e privilegiati: non è così. Buona parte di quelli che si dichiarano viene sbattuta fuori casa. La cosa più importante in assoluto, secondo me, è accettare i transgender per quello che sono. È tremendamente difficile e mi rendo conto che se non avessi un aspetto femminile, se non fossi educata e sofisticata, capiterebbe anche a me quello che succede così spesso ad altri: la mia identità sarebbe costantemente messa in discussione».
Dopo il nostro incontro, Janet Mock è stata intervistata in Tv. In quell’occasione, la conduttrice Alicia Menendez (che nel linguaggio Lgbt è una ciswoman, ossia si identifica col proprio sesso di nascita) ha accettato che Janet le rivolgesse alcune delle domande che solitamente vengono fatte a una trans.
Janet: «Prima di tutto lasciami dire che sei bellissima, e la cosa incredibile è che guardandoti non avrei mai capito che non sei una trans. Hai una vagina? Quando hai capito per la prima volta che avresti voluto essere una cis? Quando hai sentito per la prima volta crescere il seno? Nella pubertà, ti sei sentita intrappolata nel tuo corpo? Che cosa deve sapere la gente sui cis? Credo che tu sia incredibilmente coraggiosa nell’essere una cisgender in questo mondo».
«Non avevo mai realizzato quanto orrende e invasive possano essere queste domande», è stato alla fine il commento della conduttrice.