Andrea Acali, Il Tempo 11/6/2014, 11 giugno 2014
«SE ROMA NON DIVENTÒ UNA STALINGRADO FU SOLO GRAZIE ALL’IMPEGNO DI PIO XII»
In piazza Pio XII, «anticamera» di piazza S. Pietro, una targa marmorea ricorda il titolo di «Defensor Civitatis» attribuito al Pontefice che con la sua azione evitò la devastazione dell’Urbe, su cui incombeva il doppio pericolo delle rappresaglie degli occupanti tedeschi e dei bombardamenti alleati durante la Seconda Guerra mondiale, soprattutto dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Una dimostrazione del profondo legame del vescovo di Roma con la sua città, dell’affetto che veniva tributato al Pontefice dagli stessi romani e dei meriti indiscutibili che ebbe Papa Pacelli nel salvare tante vite, senza distinzione di fede o di appartenenza politica.
«Penso che Pio XII sia uno due salvatori di Roma - racconta l’ambasciatore Alessandro Cortese de Bosis, testimone oculare di quanto avvenne in quei mesi - insieme al colonnello Leandro Giaccone, che firmando la resa di Roma ottenne lo status di città aperta evitando il bombardamento degli aerei tedeschi già pronti a decollare da Viterbo. Mi è rimasta impressa la frase stupenda pronunciata dal Papa quando convocò gli ambasciatori tedesco e statunitense: "Chiunque osi colpire Roma è colpevole di matricidio". E questo lo disse pochi giorni prima del 4 giugno, quando la città fu liberata. Evitò che Roma si trasformasse in una seconda Stalingrado».
Anche lei si salvò da un destino peggiore grazie al Pontefice.
«Senza dubbio. Avevo 17 anni e mezzo e dunque non ero ancora soggetto alla leva ma c’erano il servizio di lavoro obbligatorio, il coprifuoco, le razzie delle SS. Noi eravamo spiritualmente vicini alla Santa Sede (abitavamo a Piazza di Spagna) e il principe Barberini, guardia nobile del S. Padre, ci raccomandò, insieme a molti altri giovani, per trovare rifugio nel seminario di S. Giovanni. Se ne occupò mons. Ronca, futuro arcivescovo, che aiutò tantissime persone. Tra i rifugiati c’erano ad esempio Pietro Nenni, Sandro Pallavicini, Ugo Zatterin. Per nostra fortuna non c’erano molti seminaristi...».
Non fu l’unico aiuto.
«Infatti. Poco dopo, su discreto consiglio della Santa Sede, in particolare di mons. Montini, all’epoca sostituto della Segreteria di Stato e dunque chiaramente per volontà di Pio XII, ci venne suggerito di fare domanda come volontari ausiliari della Guardia palatina d’onore di Sua Santità, all’epoca comandata dal colonnello Cantuti di Castelvetro. Grazie a questo escamotage ci venne data una tessera bilingue insieme al mantello (non una vera divisa) e questo ci permetteva per esempio di tornare a casa ogni tanto superando i controlli delle SS e della Polizia dell’Africa italiana, che con i suoi caschi coloniali del tutto fuori luogo sostituiva in quel periodo i carabinieri, di cui i nazifascisti non si fidavano. Dal Laterano sentivamo i cannoni in azione ad Anzio. Abbiamo vissuto lì da metà settembre del 1943 alla liberazione del 4 giugno del ’44».
Come furono quei mesi vissuti sotto la protezione del Vaticano?
«Straordinari. C’era anche una stalla, la mattina ci davano un quarto di latte... Noi più giovani stavamo un po’ di più per conto nostro ma ho avuto modo di vedere Pietro Nenni in una celletta, con l’abito talare appeso a un chiodo. Ricordo il prof. Volterra che aveva una villa sui Colli Albani requisita dai tedeschi che ci avevano piazzato una batteria da cui bombardavano Anzio. Travestito da contadino andò a vedere la situazione e trasmise al fronte clandestino le informazioni grazie alle quali gli alleati distrussero la postazione e, ovviamente, colpirono anche la villa... Eravamo una trentina di giovani. Io trascorrevo le mie giornate studiando, ero in terzo liceo. Nella prima aula della Pontificia università avevano tolto i banchi e creato delle corsie dove dormivamo. Accanto a me c’erano due ragazzi ebrei, Massimo Padovani e il fratello, figli di un eroico colonnello che fu espulso dall’esercito a causa delle leggi razziali. Ricordo che a settembre faceva molto caldo ma Massimo all’aperto girava con il cappotto. Alle nostre obiezioni rispondeva che a Roma faceva caldo ma in Polonia no: sapeva il rischio che correva di essere deportato. Eravamo a conoscenza dell’esistenza dei campi di sterminio ma la piena consapevolezza io l’ho avuta solo alla fine della guerra. Un fatto che non viene messo abbastanza in evidenza... Ricordo anche un episodio divertente».
Prego.
«L’ho raccontato nel mio libro "In terra di nessuno". Nel dicembre del ’43 il cuoco, che doveva cucinare per centinaia di rifugiati oltre che per i religiosi, fece un errore colossale e nel minestrone mischiò una purga per i muli! La notte fu un ingorgo davanti ai bagni al grido di "Carta! Carta!"».
Ci fu qualcun altro che vi aiutò?
«Certo, ricordo in particolare mons. Righini (segretario di mons. Ronca, ndr) che mi venne a prendere a casa, e l’allora don Palazzini, futuro cardinale, che si diede da fare tantissimo. Alcuni politici ed ebrei furono portati in taxi nel seminario e nell’Università lateranense».
Sempre con l’approvazione di Pio XII.
«Senza dubbio, così come è accertato che fece aprire i conventi di clausura».
Tutto questo fino alla liberazione.
«Restammo in Laterano fino al 4 giugno. Curiosamente, il primo veicolo che vedemmo arrivare non fu un carro armato o un blindato ma un’ambulanza che si infilò a tutta velocità nell’ospedale S. Giovanni e ne riuscì poco dopo altrettanto velocemente. È evidente che era andata a prendere qualcuno che stava a cuore agli alleati. Poi giunse la prima divisione corazzata da Cassino. Anche qui ricordo un episodio simpatico: il generale Clark a Porta Maggiore aveva perso l’orientamento. Voleva andare in Campidoglio per tenere un discorso. Dovette essere accompagnato da un prete che passava in bicicletta... In ogni caso anche in quelle circostanze fu evidente il ruolo di Pio XII».
In che modo?
«Il Papa ebbe un altro grande merito: ricordo il passaggio dei tedeschi in rotta, alcuni in condizioni veramente penose, che dalla Casilina e dall’Appia si dirigevano verso Cassia e Flaminia, per ritirarsi verso nord. Le truppe erano costantemente sorvegliate dagli aerei di ricognizione americani a bassa quota eppure non venne sganciata una sola bomba. Così come fu evitata la distruzione dei ponti di Roma da parte tedesca. L’opera di Pio XII fu assolutamente determinante».
Andrea Acali