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 2014  giugno 11 Mercoledì calendario

DA QUANDO HO UCCISO LA FARFALLA NON SO PIÙ VOLARE


Non mi era mai capitato di scrivere in prima persona della tragedia che ho vissuto. Accolgo l’invito del giornalista Vanni Zagnoli con il quale da un anno ho un filo diretto, perché lo stimo per la correttezza e il garbo con cui racconta su Libero le storie dei presidenti che con il calcio hanno avuto problemi e sventure. Tra questi Franco Cimminelli, poi scomparso, che in realtà fu l’azionista di quel Torino in cui chiese a me di fare il Presidente.
Fra i tanti luoghi comuni in circolazione, uno sempre in voga è quello del tempo che a poco a poco lenisce i dolori, anche i più grandi. Per me non è andata così. Per me il calcio, da gioia della mia adolescenza, è diventato una tragedia molto presto, a 19 anni, con la morte di Gigi Meroni, il mio idolo.
Mezzo secolo fa, esattamente, nell’estate 1964, Meroni passò dal Genoa al Torino. In autunno è andato in onda la Farfalla Granata, una delle storie di sport più struggenti d’Italia, e non solo, con l’interpretazione impeccabile di Alessandro Roja, nel filone dei successi delle fiction sportive. Sono grato alla Rai per non avermi coinvolto, perché fui attore di quell’incidente mortale.
Era il 15 ottobre del 1967, avevo iniziato l’università. Ero ancora lontanissimo dal lavoro degli adulti, dall’ufficio stampa della Fiat, in cui lavorerò dal ‘76 al 2000.
Sono stato un cuore granata, ma non il solo, in una casa molto juventina. Più volte parlai con l’avvocato Agnelli, grande appassionato e conoscitore del calcio, anche della mia dolorosa vicenda.
Ebbene, quella domenica sera, con la mia Fiat 124 coupè andai a prendere un amico per andare a cena. Al pomeriggio ero stato a vedere la partita Torino-Sampdoria, finita 4-2 per i granata, ma in tribuna litigai con un tifoso che criticava proprio Gigi Meroni, e naturalmente io lo difendevo.
Il campione finì addosso alla mia vettura anche a causa di un gioco di ombre e luci dovuto agli alberi, in corso Re Umberto quasi davanti a casa mia. Procedevo a bassa velocità, dapprima toccai di striscio il suo compagno Fabrizio Poletti e poi lui, che fece un passo all’indietro.
Mi condannarono a 6 mesi con la condizionale: omicidio colposo con responsabilità al 75 per cento, perché Gigi attraversava fuori dalle strisce pedonali.
Non eravamo amici, gli chiedevo autografi fuori dallo stadio Comunale, ero orgoglioso quando mi scambiavano con lui, poiché un po’ gli rassomigliavo ed ero pettinato allo stesso modo. L’auto con cui ebbi l’incidente e la mia camera da letto erano tappezzate di sue fotografie. Caddi nella disperazione perchè avevo provocato la morte di un uomo, certo, ma che oltretutto era anche il mio idolo calcistico. Provocare una morte è sempre un fatto tragico, in questo caso è una tragedia multipla che dura da quasi 50 anni. Gigi aveva una capacità di saltare l’uomo rara e colpi tecnici inconsueti. Era dinoccolato, giocava con i calzettoni bassi, da ala destra dribblava e segnava. Oggi si direbbe: puntava l’uomo.
Una delle sue partite migliori fu nel marzo del ’67, a Milano con la grande Inter di Herrera, vincemmo 2-1 e io ero presente dietro la porta in cui segnò, lasciando stupefatto il portiere interista Giuliano Sarti. Giocò anche in Nazionale, ai Mondiali del ’66, la gara con l’Urss persa 1-0, dopo aver disputato una grande amichevole di preparazione con l’Argentina.
Potenzialmente era da Pallone d’oro, anche perché aveva solo 24 anni, perlomeno poteva diventare il numero uno del calcio italiano. Era estroverso e dotato quanto l’inglese George Best e, come rapidità, oggi lo paragonerei a Leo Messi, poco più basso.
Umanamente, era un innovatore, estetico e del pensiero, come anticonformismo e originalità precedette i movimenti studenteschi del ’68.
Guidava una Fiat Balilla, dipingeva, viveva da bohémien in una soffitta di Piazza Vittorio con la compagna Cristiana. Sembrava un artista della Parigi spensierata e trasgressiva degli Anni 20, in questo senso la fiction televisiva è stata una ricostruzione molto efficace.
I casi della vita mi hanno portato alla presidenza della società dal 2000 al 2005, sino alla promozione in A cancellata dal fallimento, su cui ci sarebbe tanto da dire, e un giorno o l’altro lo farò.
Quella sera lontana del 1967 riemerge continuamente, non è rimuovibile. Resta un dolore incancellabile e muto. Facevo parte dei Fedelissimi del Toro, i più mi rincuoravano, sono state rare le minacce che mi sono arrivate. Ho conosciuto la sorella Maria Meroni al museo di Inter e Milan, ma non il fratello Celestino, defunto. Ogni volta che il Torino giocava a Como, andavo al cimitero dov’è sepolto Gigi. Tutti gli anni viene ricordato con una messa a Torino, i tifosi mandano mazzi di fiori: anch’io li inviai per il funerale, avrei voluto partecipare ma gli avvocati me lo sconsigliarono.
La nostra tragedia, perché da subito è stata anche mia, rientra nella drammaticità della storia granata. E’ una delle tante sventure capitate alla società e a chi la ama. La più grande fu a Superga nel 1949, dove tra l’altro il pilota dell’aereo si chiamava Luigi Meroni.
La storia di Gigi Meroni e la tragedia che la concluse è raccontata molto bene nel libro di Nando Dalla Chiesa “La farfalla granata”, che ha ispirato anche la fiction televisiva. La vita continua, come si dice, ma per me non sarà mai come prima. Ora mi occupo di comunicazione industriale. E in fondo ha ragione il ct del volley Mauro Berruto: «Per ciascuno la squadra del cuore è speciale, il Torino è un’altra cosa. Chi lo tifa capisce benissimo, agli altri rinunciamo a spiegarlo perchè non è comprensibile».

* Presidente del Torino dal 2000 al 2005