Giovanni Sabbatucci, Il Messaggero 11/6/2014, 11 giugno 2014
SEI MESI PER RIDARE L’ORGOGLIO AL PAESE
Tutta presa dalle urgenze di due successive campagne elettorali, e dalle conseguenze dei risultati sugli equilibri di partito e di governo, la politica italiana sembra aver da qualche tempo lasciato in secondo piano, se non proprio accantonato, il tema delle riforme istituzionali, già più volte indicato, in primo luogo dal presidente del Consiglio, come il più importante e il primo della sua agenda. Quasi che la promessa di stabilità contenuta nel successo del Pd e nel suo proporsi come nuovo cardine del sistema politico potesse in qualche modo surrogare la necessaria opera di aggiustamento dell’intera macchina. Di più: proprio i risultati europei, proiettati forse con troppa disinvoltura su quelli delle future consultazioni politiche, sembrano aver messo a rischio anche le intese che sembravano già raggiunte: ad esempio, l’idea del ballottaggio fra i due meglio classificati, centrale nell’Italicum tenuto a battesimo da Renzi e Berlusconi, appare assai meno invitante a chi, come il centro-destra, oggi paventa il rischio di giocare il ruolo del terzo arrivato in una competizione a tre.
È toccato ancora una volta al presidente della Repubblica il compito di richiamare l’intero ceto politico al rispetto delle sue stesse priorità. Lo ha fatto ieri mattina, in toni discreti e non formali (come del resto imponeva l’occasione), quando, salutando gli attori e i cineasti candidati ai David di Donatello, ha richiamato il carattere “temporaneo” del prolungamento del suo mandato.
E ha insistito sulla necessità di riprendere il cammino delle riforme: come a ricordare, per l’ennesima volta, che le due cose sono legate; e che fra i compiti spettanti al Parlamento in carica, vi sarà con ogni probabilità l’elezione di un nuovo capo dello Stato.
Del resto, anche a prescindere dai richiami del presidente, non mancano le ragioni oggettive per sistemare in tempi ragionevoli la pratica delle riforme. Comincerà fra poche settimane il semestre di presidenza europea, che potrebbe servire a un’Italia rinnovata nell’immagine (e finalmente confortata da qualche dato economico incoraggiante) per accrescere il suo peso nei processi decisionali dell’Ue. Sei mesi dopo si aprirà, o almeno così si spera, l’Expo milanese: altra occasione per dar prova di sapersi ritrarre dall’orlo del baratro e per far dimenticare, almeno per un po’, le ombre degli ultimi scandali tangentari.
Ci sono infine le convenienze politiche. Matteo Renzi ha tutto l’interesse a tener fede ai suoi impegni. Non solo per rafforzare la sua credibilità e la sua stessa figura di leader. Ma anche e soprattutto per disporre di un forte potere di dissuasione nei confronti dei suoi avversari esterni ed interni (oggi verosimilmente cauti di fronte all’ipotesi di elezioni all’insegna del proporzionale puro); e, in prospettiva, per puntare, se del caso, a una vera investitura elettorale, sapendo di poter contare poi su un apparato istituzionale più agile, adatto al suo stile al suo modo di operare e ai suoi tempi di lavoro. Quanto a Berlusconi, sembra oggi tentato di rovesciare l’intero tavolo delle riforme, come fece nel 1998 con la Bicamerale. Ma il prezzo sarebbe la rinuncia al ruolo di co-titolare e di co-gestore del cantiere riformista (l’unico che oggi gli rimanga), per confinarsi nel ghetto di un’opposizione sterile e rancorosa: forse risulterebbe più conveniente per lui stesso lasciare spazio alla ristrutturazione di un centro-destra meno schiacciato sulle posizioni anti-europee e meno appiattito sull’immagine e sugli ordini del capo. L’unico fra i protagonisti della scena politica che non ha al momento alcun interesse a portare avanti le riforme, anzi le teme, è il Movimento cinque stelle. Ma questo dovrebbe essere, per i suoi concorrenti, un motivo in più per accelerarne il cammino.