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 2014  giugno 06 Venerdì calendario

MALEDETTA RIMET

Lo volle Jules Rimet, avvocato francese con il vizio del pallone, più di altri affezionato all’idea che il calcio potesse essere professionismo e che quindi non bastavano le Olimpiadi. Stavano strette. Serviva un Mondiale. E lo organizzò partendo da un ristorante di Barcellona, era da poco diventato presidente della FIFA, dopo aver riunito altri dirigenti e aver deciso che sì, era il momento di far partire un campionato del mondo tra nazioni (il via al progetto fu dato il 29 maggio 1928 al congresso di Amsterdam). Puntò sull’orgoglio, perché il CIO guardava male il professionismo e voleva escludere il calcio dai Giochi (infatti poi lo escluse) e allora meglio fare da soli e fare di più.
Dunque, un Mondiale che si rispetti ha bisogno di un luogo (e c’è l’Uruguay che paga anche le spese alle altre Nazionali) e di un trofeo. Così nasce la Coppa, che si chiama Victory e viene commissionata a Abel Lafleur, orafo parigino cresciuto alla scuola di Cartier. Trenta centimetri, nemmeno troppo: una vittoria alata che regge una Coppa decagonale, piedistallo di marmo, 3.800 grammi, 1.800 grammi di oro. Il nome del suo ideatore la Coppa lo prese nel 1946, quando diventa anche lei “Rimet”. La “Vittoria alata” nasce, passa di mano in mano, si nutre di misteri, aneddoti, storie.
Rubata, trovata, maledetta, rifatta, rubata, trovata, forse fusa.
Tutto parte dal viaggio, il primo.
La sua prima volta verso un Mondiale, la Coppa viaggiò in nave. Cioè: un piroscafo italiano, il Conte Verde. C’erano tre arbitri, Rimet, e pure le Nazionali. Ma anche migranti, borghesi, viaggiatori per piacere. E cantanti lirici, come Šaljapin, tenore russo del quale si narra un rifiuto, quando gli chiesero di cantare per festeggiare il passaggio dell’equatore e si sdegnò: «Se fossi un ciabattino vorreste forse che suolassi le vostre scarpe gratis? È la stessa cosa, gratis non canto».
La Coppa c’era sin dalla partenza da Genova, in una cassaforte. A Genova salì a bordo anche la Romania, mentre a Villefranche-sur-Mer toccò ai francesi (ai quali Rimet stesso fece ottenere dei permessi per assentarsi 60 giorni da lavoro), a Barcellona fu il turno del Belgio e infine a Rio fu il momento del Brasile, la terza Nazionale a bordo della nave con la Coppa (anche la Jugoslavia viaggiò in nave, ma con la Floridia, partendo da Marsiglia).
Mentre la Coppa era custodita perché restasse intatta la bellezza, le squadre si allenavano sui ponti di bordo, con il pallone che finiva in mare e i passeggeri che qualcosa da ridire l’avevano. Lucien Laurent, il francese autore del primo gol della storia dei Mondiali (in Francia-Messico 4-1, il 13 luglio 1930), lo raccontò: «Trascorremmo 15 giorni nel Conte Verde per raggiungere il Sud America. Gli esercizi di base li facevamo di sotto e ci allenavamo sulla coperta della nave. Il nostro allenatore non ci parlò mai di tattica». La Coppa stava lì. Con loro. E sarebbe tornata con una Nazionale sola, nemmeno sicura di essere ancora in nave.
La Coppa arrivò in Uruguay e ci rimase quattro anni, perché i padroni di casa vinsero e dunque la tennero lì, prima di portarla a Roma nel ’34 e lasciarcela, perché poi vinse l’Italia quel Mondiale e quello del ’38, allontanandola da casa solo per il tempo di portarla in Francia, trionfare e riportarla indietro. A casa, appunto. Perché a guerra in corso Ottorino Barassi, segretario della Federcalcio, la prese dalla banca dove era custodita e la portò nella sua abitazione: avrebbe dovuto tenerla fino al ’42, il Mondiale che non si giocò (quella della Patagonia è una geniale invenzione di Soriano, ma non una manifestazione vera) perché la guerra era in corso.
La casa di Barassi, la guerra, la leggenda. Partendo da un punto fermo: o per il bisogno d’oro della Germania o per il valore esoterico che si dava al trofeo (e che intrigava Hitler: secondo la sua visione avrebbe reso la Germania invincibile), la Platzkommandantur dà l’ordine di trovare la Coppa Rimet e la Gestapo si presenta a casa Barassi, in piazza Adriana. A Roma. Barassi forse perché conosce il calcio (ci ha giocato con l’Unitas di Cremona) simula, dice che lui di questa Coppa non sa niente, che l’hanno presa quelli del Coni e della Federazione e portata a Milano, quegli ingrati nemmeno gli avevano permesso di tenerla con sé, al riparo. Insomma, non può accontentare i tedeschi che però nel dubbio gli perquisiscono casa, ma non guardano sotto il letto, dove c’è una scatola di scarpe e dove c’è la Coppa. La scena tramandata è di quest’uomo vagamente somigliante a Togliatti che nel calcio dell’epoca ha rivestito quasi tutti i ruoli (e dal 2011 vanta un riconoscimento alla memoria nella Hall of Fame del calcio italiano) lasciarsi cadere sul divano sbuffando per il pericolo scampato, quando i tedeschi abbandonano casa sua convinti che, sì, quella Coppa non c’è.
C’è però una parte di letteratura che lascia la scatola di scarpe come posto sicuro, ma cambia la sceneggiatura, aggiungendone un pezzo: venuto a sapere dell’imminente arrivo della Gestapo, Barassi si accordò con il generale Giorgio Vaccaro, presidente della Figc dal 1933 (il precedente, Arpinati, era stato mandato al confino) e mise in piedi rapidamente un piano: la moglie andò ad aprire ai tedeschi mentre lui, avvolta in un giornale, passò la Coppa a Vaccaro attraverso balconi confinanti. E i tedeschi poi andarono da Vaccaro: lì—sotto il lettino del figlio—c’era la Coppa nascosta in una scatola di scarpe, ma il generale mostrò ai “visitatori” la sua collezione di trofei per distrarli e soprattutto fece notare una pergamena dedicata a lui, firmata da Hermann Göring, il numero due (con Goebbels) del Terzo Reich. Quella convinse la Gestapo ad andare via, perché lì la Coppa non poteva stare. E c’era, invece.
Nel 1946, in Lussemburgo, a Guerra finita si dovevano porre le basi per far ripartire i Mondiali: il 25 luglio Jules Rimet aprì i lavori del Congresso della FIFA e non era chiara la fine della Coppa tanto ambita dai nazisti. L’estrasse Ottorino Barassi, che era pure vicepresidente FIFA. La “vittoria alata” era salva davvero, in onore dei venticinque anni di presidenza diventò Coppa Rimet e l’Italia, pare, si riqualificò agli occhi del mondo calcistico, che invece aveva estromesso Germania e Giappone perché nazioni responsabili del conflitto.
Nel ’66, a marzo, in Inghilterra. Il primo Mondiale nella terra di chi in principio si era rifiutato di partecipare perché il calcio era nato da loro e non si poteva iniziare in Uruguay, mischiarsi con gli altri. Fecero una figuraccia, nella smania di solennità da padroni del pallone. Volevano celebrare in grande, organizzarono una mostra di francobolli di enorme valore, alla Westminster Hall ed esposero anche la Coppa Rimet. Rubata, durante la pausa caffè degli addetti alla sicurezza forse un po’ troppo sicuri. Il 20 marzo, con l’ovvio scorno di chi si sentiva infallibile.
Bisogna trovarla, i Mondiali sono a rischio con questa onta pendente, bloccare le stazioni della metropolitana, rinfrescare l’immagine di Scotland Yard, cercare in ogni punto, domandarsi perché la Coppa sì e tutti quei francobolli no (risposta: la Coppa si può fondere e monetizzare più semplicemente), arrestare qualcuno per sembrare efficienti. Tipo Edward Betchley, portuale disoccupato, anni 47, altro protagonista di un pezzo di letteratura: Betchley è tra chi manda la lettera anonima alla sede della Football Association con un pezzo del basamento in marmo della Coppa o secondo un’altra versione la testa rimovibile del trofeo e la richiesta di 15.000 sterline per restituirla. Quella lettera arriva e, paradosso, è un sospiro di sollievo: la Rimet c’è ancora, non è stata ancora fusa. Poi Joe Mears, presidente della FA, farebbe di tutto per averlo e, infatti, decide di cedere al ricatto: appuntamento in incognito, in un parco, con il solito patto. «Niente Polizia», ma la Polizia c’era, Betchley la notò in borghese tra la folla e cercò di fuggire, ma fu catturato, arrestato, poi liberato su lauta cauzione (appuntatevi questa parte del giallo: chi pagò per lui?).
Però la Coppa non c’era, solo un arrestato. Il giorno dopo (siamo al 27 marzo) è il giorno di Pickles (tradotto: “cetriolino“), un cane senza pedigree che era a spasso con David Corbett, il suo padrone, a Beulah Hill, a sud di Londra. Pickles si fa attrarre da un pacchetto avvolto nel Daily Mirror sotto un cespuglio. Lì dentro c’è la Coppa Rimet, almeno così dicono. Festa, sorrisi, ricompensa: Pickles e David Corbett ricevono 5.000 sterline dell’epoca (tantissimo) e onori, al punto che Pickles fu invitato al banchetto di premiazione dopo la finale mondiale.
Il giallo è risolto per caso. O forse no, perché al netto della propaganda ci sono le domande, i dubbi. Perché solo un ladro senza astuzia può lasciare la Coppa in un giardinetto correndo il rischio che venga trovata, dopo aver corso il folle rischio di rubarla. E perché proprio il giorno dopo l’arresto di Betchley, ladro senza refurtiva. Dubbi che si sommano a quello della cauzione di Betchley e al più grande, mai chiarito: che quella fosse in realtà una copia, con l’originale abbondantemente fusa da chi se n’era impossessato.
E anche intorno alla copia si scrisse un altro pezzo di leggenda: la Federazione inglese chiese alla FIFA di realizzare una replica per sicurezza, ricevette un sonoro “no” e ovviamente andò avanti per la sua strada: commissionò l’opera a George Bird, gioielliere londinese, che la realizzò in bronzo dorato. E dunque forse l’Inghilterra fece il giro di campo dopo la vittoria in finale con una copia, con l’originale al sicuro e poi la copia tornò a Bird, che la mise sotto il suo letto (c’è sempre un letto sotto il quale mettere una Coppa, in questa storia). In aggiunta: quattro anni dopo gli inglesi dovevano restituire la Coppa alla FIFA, ma forse diedero la falsa, o forse avevano sempre avuto la falsa e non lo sapevano. A un certo punto anche la FIFA si convince che quella Coppa rimasta in Inghilterra e custodita da Bird potesse essere vera. Infatti quando nel ’95 l’orafo muore, i familiari trovano questa Coppa e la mettono all’asta, nel catalogo di Stoheby’s alla voce “replica”, ma con una base d’asta di circa 30mila sterline, circa 45mila euro attuali, per un trofeo che fosse stato in bronzo sarebbe costato nemmeno 3mila euro. All’asta partecipano in due: la Federazione brasiliana e la FIFA. La spunta la FIFA, prezzo clamoroso: 254mila sterlina, quasi 400mila euro. Poi scoprirono che era falsa.
Prima dell’asta e poco dopo il Mondiale inglese, si allarga il sospetto che quella Coppa intanto avesse una maledizione. Joe Mars, il presidente della Federazione Inglese, morì due settimane dopo il Mondiale per una crisi cardiaca mentre era a caccia, David Bletchley morì due anni dopo per enfisema, e pure il cagnolino Pickles morì nel ’67, strangolato dal proprio guinzaglio mentre inseguiva un gatto.
In ogni caso ora esistono due coppe Rimet in esposizione: una a Jacarepaguá, un’altra a Preston nel National Football Museum britannico. E non è chiaro quale sia quella vera e se lo sia una delle due almeno. L’ultima apparizione l’ha fatta nel Mondiale del 1970: poteva finire nelle bacheche di Italia, Uruguay o Brasile, perché il regolamento prevedere l’assegnazione definitiva a chi vinceva tre edizioni e queste Nazionali erano in semifinale e ne avevano vinte due (la quarta semifinalista era la Germania, che rese possibile el partito del siglo con l’Italia). La vinse il Brasile, che fieramente l’aveva esposta nella sua Federazione. Nulla di strano, se non fosse per il piano elaborato con calma e culminato nel 1983 con un nuovo furto. Lo progetta un ex dipendente della Federazione, Sérgio Pereira Alves, detto Peralta, lo propone a un italiano Antonio Setta, che però ama troppo il calcio per togliere un simbolo conquistato per sempre, e che ha visto pure morire il fratello d’infarto durante la finale di Messico ’70. Ma Peralta ormai ha deciso, deve solo trovare complici pronti a seguirlo. Li trova: sono quattro, in tutto; due di questi sono Jose Luis Rivera (Luiz Bigode), decoratore e Francisco José Rocha (Cicho Barbudo), ex investigatore privato. Peralta dà le istruzioni, i due irrompono alle 21 di lunedì 19 dicembre, arrivano al nono piano del palazzo della Federazione brasiliana, sanno che la Rimet è custodita nell’ufficio del tecnico Julite Coutinho, immobilizzano il guardino e portano via il trofeo.
Althemar Dutra Castilhos, presidente degli arbitri brasiliani, a notte fonda conferma: la Coppa è stata rubata, non si capisce da chi. Ma i ladri di storia sono anche un po’ ladri di polli: non chiedono un riscatto (il Brasile è in lutto per la sparizione), non lo vendono (forse, lo vedremo dopo) a un collezionista; fondono l’oro e lo rivendono. Pare guadagnino 15.500 dollari dal chilo e ottocento grammi di oro rimesso sul mercato, ma è quattro volte (almeno) inferiore come valore alla Coppa intera. E trovano anche un altro complice, il quarto, perché quest’oro in qualche modo andava fuso: assoldano l’argentino José Carlos Hernández, che ha un negozio di argenteria, ma con la sua attrezzatura può fondere al massimo 250 grammi per volta. L’orrore: per compiere l’operazione (sette ore, in tutto, la Coppa viene tagliata a fette.
Dicono che da qui in poi la maledizione, che già aveva colpito Joe Mars, David Bletchley e il cagnolino Pickles, diventi spietata. Un tributo di sangue richiesto dalla storia del pallone, cominciata dalla richiesta di Rimet all’orafo Abel Lafleur e finita in lingotti.
Peralta non resta molto tempo libero. Per un moto di coscienza di Antonio Setta, l’italiano che si era rifiutato di partecipare al furto. Legge la notizia, denuncia il progettista del colpo, del quale ormai aveva rinnegato l’amicizia per amore del pallone. Nel gennaio del 1984 Peralta viene trovato dalla polizia per strada a Rio, incappucciato, portato in un luogo nascosto e tenuto senza cibo e con tante botte per tre giorni. «Ho sofferto ogni tipo di torture, per le botte ho un testicolo doppio dell’altro», dirà tempo dopo. Stessa sorte per Bigode, Barbudo e Hernandez, tutti messi in libertà vigilata durante il processo e datisi poi alla latitanza quando quattro anni dopo arriva la condanna. Peralta riesce a fuggire dalla porta del retro quando la polizia va a cercarlo, però nel ’94 un suo concittadino lo riconosce in un programma tv e la latitanza finisce. Il padre (la maledizione, appunto) nel frattempo è morto per la vergogna, Peralta muore nel ’99 abbandonato da tutti, mentre è in libertà vigilata. Non fa una bella fine nemmeno Hernández, il titolare dell’argenteria: fugge in Francia nell’89, diventa narcotrafficante, lo arrestano a Parigi, gli toccano sette anni di carcere ma non perde il vizio e nel 1998 è di nuovo in Brasile. Con otto chili di cocaina in valigia. Si narra che il poliziotto che lo fermò disse: «Tu sei quello ha fuso la Rimet», portandolo poi via e sbattendolo in un carcere duro di Rio, dove ha passato lungo tempo da malato. Brutta fine anche per Barbudo, assassinato nell’89 nello stesso bar in cui Peralta aveva parlato ad Antonio Setta del colpo, cercando complicità.
Quello che la scampa, ma nemmeno tanto, è Bigode. Almeno sopravvive, ma prima passa dal carcere duro di Bangu (viene catturato nel ’95), poi in libertà vigilata sente il terrore della maledizione e fornisce materiale ai racconti popolri: hanno detto di averlo visto spesso in un giardino giocare con un cane immaginario. Che chiama Pickles e al quale si rivolge chiedendo quando finirà la rabbia della Rimet. «Quand’è che quel maledetto trofeo sarà sazio e ci lascerà in pace?»
Ma forse pace non ce n’è, perché in fondo non ce n’è mai stata. La Coppa Rimet ha vissuto un’avventura eroica ed è finita piuttosto male. Tagliata a pezzi, lanciatrice di un anatema, fusa, venduta a pezzi, anzi svenduta. O forse no, forse non è stata mai fusa e i ladri brasiliani, al netto della brutta fine, erano più furbi di quanto si è raccontato, perché c’è chi giura che la vittoria dalle mani alate sia in bella vista nella casa di qualche collezionista milionario, forse addirittura italiano. Insomma, non prendetela per oro colato.