Gabriele Romagnoli, la Repubblica 10/6/2014, 10 giugno 2014
CHE NOSTALGIA PER IL SALINGER DEL FUMETTO
Lasciare il segno non significa durare un’eternità, ma diventare inconfondibili. Lo provano un draghetto vorace, tre donnine discinte, un cielo che si squarcia per una battaglia spaziale: neppure una striscia intera, ma un terzo di tre strisce. Un cameo. Senza firma, eppur riconoscibile per chiunque sia affezionato a un mondo che è sparito vent’anni fa, su una slitta, precipitando verso un altrove di neve e fantasia. Bill Watterson è riapparso così. Il creatore di Calvin e Hobbes, definito il Salinger del fumetto, è uscito a prendere una boccata d’aria portandosi dietro la matita. E’ entrato, dietro invito, nella casa di un altro disegnatore, ha riempito tre tavole e se n’è riandato.
Per sempre o forse mai, dipende dal significato che attribuite a “persone che se ne sono andate”. Lui, a occhio, è sempre rimasto, non essendo mai stato carne o luce, ma soltanto ombra e spirito: dei natali non arrivati, dei sogni interrotti, dell’esistenza come mera possibilità alternativa. Il tutto riassunto nella frase del suo bambino di carta e fantasia: “La realtà continua a rovinare la mia vita”.
Tre terzi di strisce sono stati sufficienti a provocare emozione e notizia. La voce è corsa sui forum di appassionati di fumetti, ha trovato la conferma dell’incredulo coautore di Watterson (Stephan Pastis), è stata rilanciata da numerosi siti, è approdata sul New York Times e altri quotidiani fatti della vecchia materia che ha reso tanto popolari un bambino sperduto, la sua tigre di pezza e l’uomo che ne ha immaginato le avventure per dieci anni (1985-1995). È come se avessero visto Michael Jordan palleggiare in un campetto di basket dell’Indiana o Ratzinger dire messa in una chiesetta della Sassonia. Perché un effetto del genere per una cosa infinitamente semplice come questa: un disegnatore in pensione ha fatto tre scarabocchi e poi è tornato nella pagina bianca? Essenzialmente due fattori: la passione e il rispetto che Bill Watterson ha saputo suscitare e mantenere vivi. Facendo qualcosa di altrettanto semplice: essendo e rimanendo se stesso, essendolo e rimanendolo in un luogo non dell’altrove, ma della discutibile realtà dove pochi sanno abitare, giacché lui vive in Disparte.
La passione, anzitutto. Pochi personaggi hanno suscitato un amore condiviso a tutti i livelli (grandi e piccini, carpentieri e filosofi) come Calvin e Hobbes. Che in realtà sono un personaggio unico: il bambino e la sua immaginazione avente per centro una tigre di pezza. Se si fosse trattato soltanto di una serie a fumetti sull’infanzia sarebbe durata quanto l’infanzia stessa, al massimo quanto la sua pubblicazione: una decina d’anni. È stata molto di più: un trattato sulla solitudine, quella che si prova a quarant’anni come a quattro, quando il mondo è un luogo regolato da oscure leggi non condivisibili, da uomini e donne ridicoli, da desideri senza nemmeno una patina di splendore e per questo rinominati ambizioni. Calvin è stata la storia di tutti quelli che hanno cercato conforto dove non c’era niente, hanno evocato un seme, una pianta, un frutto e l’hanno chiamato amore, arte, fede. La storia di adulti nella metropolitana che vanno in ufficio e immaginano di trovare il palazzo in fiamme, entrare per salvare una segretaria, ricevere i complimenti di Obama e rimanerci male perché non ha telefonato, invece… Bill Watterson. Che non telefona mai, non scrive più, fatica perfino a mandare una email, a cui non sa agganciare un allegato, non sa “scannerizzare”, “photoshoppare”, coniugare verbi che non siano genuini, di più: umani.
Di qui, anche di qui, il rispetto che genera. Watterson aveva sempre desiderato disegnare fumetti, all’università faceva la striscia politica del giornale accademico. Nessuno lo prese sul serio e provò a lavorare. Sperimentò lo spaesamento di un uomo che guadagna in cambio di cose che non ama e non lo rappresentano. Si dimise, ricominciò. Abbandonò la politica per la vita. Inventò Calvin. Fu un trionfo. Non credette alla possibilità di fare soldi, né gli importò. Cedette gran parte dei diritti in cambio della più ampia diffusione. Invase le ultime e penultime pagine d’America. Strappò sorrisi sugli autobus, nei tinelli, negli uffici in pausa pranzo, dovunque ci fossero noia e tempo immobile. Lo fece per dieci anni, poi salutò educatamente. Aveva scritto (in una nuvola di Calvin): «Non c’è mai stato abbastanza tempo per fare tutto il niente che vuoi». Avrebbe detto, per spiegare il ritiro: «La ripetizione uccide la magia». Ci sono quelli che inventano la ruota e quelli che si accontentano di farla girare. Lui entrò in garage e non ne uscì più. Non è diventato ricco. Per scelta non ha mai concesso di trarre da Calvin un cartone animato, una maglietta, un adesivo. Vive ancora dove si trasferì a sei anni: Chagrin Falls, Ohio, un posto che non deve essere allegrissimo. Tradotto risulta, più o meno: Cascate della Mortificazione. Lo hanno visto pattinare con la famiglia. Un po’ come videro Salinger fare la spesa. Esiste una foto di lui al tavolo da disegno. Si sa che ora dipinge paesaggi, ma non ha mai organizzato una mostra. Lo fa per se stesso. Ha detto: «Come quelli che vanno a pesca e ributtano in acqua quel che prendono».
Vive in un modo che ci affascina perché è fuori dal tempo e dalle consuetudini. Si concede il più grande dei lussi: essere se stesso senza compromessi giacché ha affermato che «un buon compromesso è quello che scontenta tutti». E’ presumibile che sia contento, che dedichi molto tempo a sua figlia Violet, nata dopo che la slitta di Calvin era volata NEL CANDORE, che si senta libero: dalla necessità di trovare ogni giorno una battuta, dall’approvazione, da quel mostro informe nascosto sotto il letto che è il pubblico. Amavamo Calvin perché faceva quel che tutti noi abbiamo sognato e Watterson perché ha fatto quel che non osavamo sognare. Ha vissuto di fantasia, poi un giorno ha detto: può bastare così, grazie, arrivederci. Con cortesia e fermezza. Soprattutto: con purezza.
Per questo è stato bello vederlo riaffiorare e rituffarsi nel suo personale, concretissimo altrove. Sapere che c’è, anche se non si fa più sentire. Quando vuoi bene a qualcuno coniughi un verbo antico e di valore: accettare.
Gabriele Romagnoli, la Repubblica 10/6/2014