Alessandro Barbera, La Stampa 10/6/2014, 10 giugno 2014
ORA RENZI SCOMMETTE SULL’ASIA
L’ultima volta che un capo di governo italiano sbarcò ad Hanoi era il 1973. Matteo Renzi non era ancora nato, nelle piazze italiane Ho Chi Minh veniva evocato come simbolo rivoluzionario. Chiedersi cosa spinga un giovane premier cattolico a deporre una corona di fiori al mausoleo dell’eroe nazionale vietnamita è la traccia per comprendere il senso della prima missione da ambasciatore del Made in Italy. Vietnam, Cina e poi il Kazakistan: tre modi diversi di raccontare lo sguardo dell’Italia a Oriente.
L’interscambio con il solo Vietnam vale già quasi tre miliardi di dollari l’anno, Renzi punta a salire fino a cinque. Piaggio fa gran parte del fatturato qui, Ariston ci ha trovato le opportunità che ormai l’Europa non offre più. Dopo lo stop dovuto alla crisi globale il fatturato Italia-Cina l’anno scorso è risalito a 43 miliardi di dollari. Alberto Forchielli, uno che l’Asia la conosce da vicino, invita a non farsi illusioni. «Renzi deve rinsaldare i rapporti transatlantici dell’Europa con l’area Nafta, non aspettiamoci nulla da cinesi e asiatici, non vogliono integrarsi con noi». I numeri confutano la sua tesi. L’integrazione economica c’è, ma è in larga parte interna al continente. Secondo The Economist l’interscambio commerciale nell’area asiatica è pari al 54 per cento delle merci, 25 anni fa era della metà. Il sistema bancario cinese scricchiola sotto il peso dei crediti inesigibili, la malattia in comune con l’Europa.
Ma come far finta di nulla di fronte all’unica area del mondo che quando rallenta cresce del 7% l’anno, l’area che secondo gli analisti americani nel 2030 sarà più potente di tutto l’ex blocco occidentale? In Europa c’è chi ha raccolto la sfida ben prima di noi. Dopo Apple, l’impresa che nel mondo fa il fatturato più importante in Asia è Volskwagen, la terza è Bmw, la quinta è Daimler. Fin dagli anni settanta i tedeschi capirono che l’Asia presto o tardi sarebbe diventata una straordinaria occasione di investimenti. La classe media è una realtà in Cina, lo sta diventando ad esempio in Vietnam. Dove c’è il capitalismo di Stato la piccola impresa italiana non ha molte chance, a meno di non presentarsi compatta. L’avevano capito Ciampi e Montezemolo, che dieci anni fa portarono a Pechino e Shanghai la prima missione «di sistema» italiana. Ma da allora non si può dire che la forza dell’economia italiana in Cina sia diventata irresistibile. Per fare la differenza nell’export ci vuole massa critica, tanto più in un capitalismo pianificato come quello cinese. Invece più del 90 per cento delle imprese italiane hanno una media di nove dipendenti.
Due dati fanno dire ad alcuni che c’è ragione per essere ottimisti. La prima è che il capitalismo di Stato non potrà durare per sempre. Andrea Goldstein dell’Ocse si aspetta «un riequilibrio fra mercato e Stato». L’altro elemento sono le similitudini. Xin Weihua è a capo della Shandong Wanbao, importante società di import-export: «L’80 per cento dell’economia cinese è fatta di piccole imprese». Stavolta Renzi sbarcherà a Shangai e Pechino con un centinaio di aziende. Un mese fa ha messo il cappello all’accordo fra Ansaldo Energia e Shangai Electric. A Pechino ci saranno fra gli altri Unicredit ed Enel: quest’ultima ad aprile ha firmato un accordo con la State Grid, il più grande distributore di energia cinese.
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Alessandro Barbera, La Stampa 10/6/2014