Teodoro Chiarelli, La Stampa 10/6/2014, 10 giugno 2014
GENOVA, 20 ANNI SOTTO LA CUPOLA DEL BANCHIERE CHE TUTTO POTEVA
«Berneschi era il padre padrone, era lui che gestiva la destra, la sinistra e il centro in Liguria». Il coordinatore regionale di Forza Italia in Liguria, Sandro Biasotti, non ha usato mezze misure commentando qualche giorno fa l’arresto dell’ex presidente di Banca Carige, Giovanni Berneschi. «La politica non poteva fare niente perché era collusa, sedeva nei Cda della Banca e della Fondazione. Berneschi comandava».
Oggi che Berneschi dal carcere manda avvertimenti («Se parlo io, crolla il Palazzo») c’è chi a Genova non dorme sonni tranquilli.
TUTTI SAPEVANO
Ma la domanda è: perché si è aspettato tanto? Perché Giovanni “Alberto” Berneschi, Ferdinando Menconi, Ernesto Cavallini, col loro giro di mogli, figli, nuore e sodali, finiscono in gattabuia solo ora, quando del loro malaffare, dei rapporti economici incestuosi, delle operazioni sospette, mezza Genova sapeva? Storie come quella del palazzo comprato da Cavallini per 690 mila euro e rivenduto lo stesso giorno a Carige per 8,5 milioni erano finite sui giornali già nel 2006. Pochi e maltrattati rompiscatole hanno per anni posto domande «impertinenti» nell’indifferenza generale dell’establishment ligure, di Bankitalia, di Consob e della magistratura.
IL «TRIANGOLO D’ORO»
C’è chi sostiene che la verità viene fuori ora perché inizia a sgretolarsi un sistema di potere politico-economico, una cappa, che per vent’anni ha dominato Genova e la regione. C’era una volta la Liguria sottomessa dal triangolo d’oro Angelo Costa (presidente di Confindustria), Paolo Emilio Taviani (pluriministro Dc) e Giuseppe Siri (cardinale, “quasi” Papa), controbilanciata dal Pci più granitico d’Italia, quello dei portuali e degli operai che fecero cadere il governo Tambroni.
«Nel 1971 - spiega Alberto Gagliardi, amico e collaboratore di don Gianni Baget Bozzo, bastian contrario prima nella Dc e poi in Forza Italia - Genova era una delle città più ricche d’Italia, nella regione più ricca del Paese. Oggi è una città moribonda, vittima, come la Lubecca dei Buddenbrook, di una classe dirigente egoista, miope e incapace». Negli ultimi trent’anni la città si è spaventosamente impoverita. Genova è scesa intorno ai 600 mila residenti, perdendo 250 mila abitanti e quasi 100 mila posti dell’industria. Secondo uno studio Cgil del dicembre scorso, un abitante su quattro è a rischio povertà. Oltre 60 mila persone non riescono a pagare affitti, mutui e spese mediche, 42 mila risultano senza alcun reddito.
INTERESSI POST IDEOLOGICI
Al triangolo d’oro, in compenso, si è sostituito un sistema a rombo, gestito come una testuggine romana, ma dal profilo più modesto. Con una ragnatela di interessi, che andavano però al di là delle ideologie e delle appartenenze. Berneschi e la sua Carige, accanto al reuccio ammanettato di Imperia Claudio Scajola (col fratello piazzato strategicamente in banca come vicepresidente), al Pd (ex Ds, ex Pci) di Claudio Burlando in tandem con le potenti (e guarda caso spesso monopoliste) Coop rosse, alla Curia di Tarcisio Bertone (con i vari Marco Simeon e Giuseppe Profiti).
IL RAGIONIERE SGRAZIATO
Il controllo dei cordoni della borsa di una banca che in Liguria domina il mercato, avevano reso Berneschi un uomo potente, quello a cui bisognava bussare per finanziare le operazioni più importanti. Il ragionier Alberto, carattere ruvido, linguaggio e mimica alla Gilberto Govi, sintassi approssimativa, era corteggiato dall’imprenditoria locale, ossequiato e riverito dalla politica, blandito dagli amministratori pubblici. Ne ha fatta di strada, il ragioniere un po’ sgraziato, partito da Ortonovo, un paese dello Spezzino, e sbarcato a Genova a far di conto alla Cassa di Risparmio di Genova e Imperia. A pescarlo nelle retrovie fu il mitico avvocato Gianni Dagnino (lo stesso che secondo il racconto di Berneschi ai magistrati lo accompagnò in Austria con due borsoni carichi di denaro), Dc di lungo corso e primo presidente della Regione. Berneschi divenne direttore generale dopo un’epica lotta interna alla massoneria.
Nei salotti della città, al circolo Tunnel o attovagliati al ristorante Europa, si commentava sottovoce. Berneschi e la sua banca erano temuti, ma non amati dalla Genova-che-conta. Nel Cda sedevano gli imprenditori imperiesi della corte scajoliana, ma non gli industriali e armatori genovesi. Anche se poi quasi tutti bussavano alla porta di Carige. Ecco così i conti schermati del Centro Fiduciario con i soldi all’estero di un centinaio di misteriosi Vip. O i finanziamenti senza sufficienti garanzie denunciati da Bankitalia ad Aldo Spinelli, Alcide Ezio Rosina, Fabio Risso, Enrico Preziosi, Pietro Isnardi, Gianni Scerni, i fratelli Orsero, Francesco Bellavista Caltagirone, Vito Bonsignore, Giuseppe Rasero e tanti altri.
LA CONTROBANCA
I Garrone, i Costa, i Malacalza stavano alla larga. Riccardo Garrone e il cognato Gianvittorio Cauvin arrivarono a promuovere una banca alternativa alla Carige, il Banco di San Giorgio, attirandosi le ire e l’odio eterno di Berneschi. Garrone, uno dei pochi a intervenire pubblicamente, non perdeva occasione di denunciare quelle che definiva «le forze del male». Un giorno raccontò che il suo amico Vittorio Malacalza, in corsa per la presidenza degli industriali genovesi, fu avvicinato da Berneschi che gli disse a muso duro: il tuo problema è Garrone, se lo molli passi. Malacalza non ripudiò l’amico e fu puntualmente sconfitto da un (rispettabile, per carità) distributore e confezionatore di frutta secca. Le aziende Finmeccanica, su pressione dell’allora ministro Scajola (ecco le relazioni messe a frutto) votarono compatte contro Malacalza. Ora viene tirato per la giacca affinché investa nella Carige travolta dagli scandali. «Pur avendo sempre seguito un percorso imprenditoriale di totale indipendenza che mi ha portato a volte lontano dalla città - commenta oggi Malacalza - sono molto dispiaciuto per quello che sta accadendo. Nonostante tutto continuo a tifare Genova e Italia».
PENTAPARTITO E PCI
Nel consiglio Carige sedevano invece commercianti, artigiani, professionisti e professori universitari spesso legati alla politica. Come nei mitici anni ‘80, quando c’erano tutti i segretari del pentapartito e almeno un uomo del Pci. Per capire la geografia della banca, comunque iscritta in quota centrodestra, bisogna leggere i nomi di alcuni ex consiglieri. Ne esce una fotografia del perfetto equilibrio di potere che ha governato e, nello stesso tempo, ingessato la città. Il vicepresidente era Alessandro Scajola, ex deputato Dc fratello del più celebre ex ministro berlusconiano Claudio, soprannominato dai genovesi del suo partito «sciaboletta» per via del piglio militaresco a fronte di un fisico non proprio possente. Sul patto con Claudio Scajola il presidente Berneschi aveva tessuto gran parte della sua tela, lavorando sulla Imperia bianca per equilibrare i numeri della Genova rossa. Accanto a Scajola il giovane Luca Bonsignore, messo lì dal padre Vito, democristiano di lungo corso, poi socio e sodale di Marcellino Gavio (azionista della banca) e da questi liquidato con l’astronomica cifra, si dice, di 300 miliardi di vecchie lire. Reinvestite in parte dall’ex parlamentare europeo dell’Udc in Carige e ricompensate con un posto in consiglio. Dopo due ex Dc non poteva mancare un ex Pci: Remo Checconi, già presidente di Coop Liguria e di Banca Unipol, l’uomo a cui si è rivolto Berneschi per agganciare a suo tempo Giovanni Consorte. Poi Pietro Isnardi, imprenditore oleario di Imperia, grande amico e finanziatore delle campagne elettorali di Scajola. E Paolo Odone, fra i primissimi fondatori dei club di Forza Italia, leader dei commercianti genovesi, l’uomo che Berneschi ha imposto al vertice della Camera di Commercio in spregio all’establishment degli industriali e degli armatori.
Proprio dalla Camera di Commercio parte quel giro di designazioni che a catena porta alla Fondazione e alla Banca, facendo di fatto del presidente della Carige un padrone senza padroni, titolare di un potere autoreferenziale. Mentre gli uomini della Fondazione, che in virtù del 48% delle azioni avrebbero dovuto controllare Berneschi, risultavano in maggioranza a lui legati o graditi.
CUPOLA O RAGNATELA?
Basta tutto questo per dire che esisteva un «sistema Genova»? Beppe Anfossi è l’ultimo discendente di un’antica stirpe di imprenditori, rispettato e ascoltato in città. «Qui - spiega - c’è un malaffare diffuso, molti cercano di fare i propri interessi a scapito del bene comune. Ci sono grossi banditi, ma non vedo una cupola. Non un sistema organico di potere, ma diverse ragnatele, spesso collegate, con pluralità di rapporti. Solo due personalità in grado di emergere: Berneschi e Burlando».
Neppure il sindaco Marco Doria crede alla cupola. «Penso a livelli di responsabilità molto diversi. In questi due anni da sindaco ho semmai percepito la frantumazione dei poteri. Credo che le responsabilità penali siano gravissime e auspico che la magistratura vada avanti fino in fondo. Altro discorso è quello dell’opacità di rapporti che dovrebbero invece essere cristallini e trasparenti. Ad esempio per quanto riguarda i finanziamenti alla politica». Doria però non si nasconde dietro un dito. «C’è stata nella vicenda Carige una colpevole sottovalutazione dei segnali ». Sottovalutazione o connivenza? «Piuttosto che connivenza, penso a una mancanza di volontà di rompere meccanismi consolidati. Per subalternità culturale. Io sto cercando il cambiamento, ma non posso farcela da solo. Serve una reazione di carattere generale».
I NUOVI SIGNORI
Arrestati Scajola e Berneschi, “pensionato” Bertone da papa Francesco, rimane in sella Burlando. Ma la sua avventura in Regione è a fine corsa. Diventato improvvisamente renziano dopo essere stato dalemiano e bersaniano, si sta guardando intorno. Politicamente è messo in discussione nel Pd da una nuova leva di giovani. Due nomi su tutti, che con Burlando sono entrati in rotta di collisione: il nuovo segretario regionale, Giovanni Lunardon, e il deputato Lorenzo Basso. Genova, immobile, osserva. Ce la faranno?
Teodoro Chiarelli, La Stampa 10/6/2014