Mario Deaglio, La Stampa 10/6/2014, 10 giugno 2014
LA FRONTIERA DELL’ASIA
Il premier va in Asia prima di andare in America, contravvenendo a una regola non scritta che riservava agli Stati Uniti la prima visita extra-europea dei capi di governo italiani.
Il presidente del Consiglio sarà ricevuto al Congresso Nazionale del Popolo a Pechino prima che alla Casa Bianca a Washington. La rilevanza di questo cambio di priorità è ancora maggiore se si considera che, in questo momento, il presidente del Consiglio italiano è anche il Presidente di turno dell’Unione Europea.
«Per salvare l’Europa bisogna cambiare l’Europa», ha dichiarato Renzi a «La Stampa» lo scorso 27 maggio. Il cambiamento non potrà non riguardare sia l’economia sia la politica internazionale del Vecchio Continente, nel quale il coordinamento europeo, affidato negli ultimi cinque anni alla baronessa inglese Catherine Ashton, è stato di profilo straordinariamente basso. Potrebbe passare verso un’apertura all’Asia, e alla Cina in particolare, di portata almeno pari all’integrazione economico-finanziaria di Europa e Stati Uniti che gli americani propongono con insistenza.
In questo contesto di principi e di avvicendamenti istituzionali, Matteo Renzi si reca in Asia ben consapevole che il «motore commercio estero» è quello che tiene su non solo la debole ripresa italiana ma anche la (solo un po’) meno debole ripresa europea. E’ accompagnato da una delegazione di imprenditori e manager italiani, sullo stile dei capi di governo francesi e tedeschi. Prima di Pechino, ha fatto tappa in Vietnam, primo presidente del Consiglio italiano a recarsi in quel Paese, in cui la presenza industriale italiana è inaspettatamente forte; dopo Pechino e Shanghai, approderà in Kazakistan, uno dei Paesi-chiave per le risorse energetiche mondiali, dove l’Eni dirige le attività di un consorzio internazionale.
Renzi è ben consapevole che l’interscambio italiano – ossia la somma di importazioni in Italia ed esportazioni dall’Italia – vede ormai la Cina al quarto posto, appena sotto gli Stati Uniti, con questa differenza: per ogni milione di euro di merci italiane esportate in Cina, ci sono circa tre milioni di euro di merci cinesi esportate in Italia, mentre per ogni milione di euro di merci italiane esportate negli Stati Uniti, le esportazioni americane in Italia valgono appena circa 400 mila euro.
In Cina, in altre parole, l’Italia può crescere abbondantemente e ha cominciato a farlo. Secondo una recente analisi della Coldiretti, nel febbraio 2014 le esportazioni del settore alimentare italiano risultavano cresciute, rispetto a un anno prima, addirittura del 36,3 per cento, un incremento tre volte superiore alla media mondiale di crescita di questo segmento del nostro commercio estero. In Cina – ma più generale in Oriente – gli esportatori italiani del «made in Italy», che comprende, oltre al comparto tessile e delle calzature, anche la gioielleria e i mobili, trovano compratori nelle crescenti fasce di popolazione dotate di redditi medi, in una cultura che, per tutto il suo capital-comunismo, è permeata dall’apprezzamento della qualità. In altre parole, dipenderà anche dagli orientali se l’Italia riuscirà non solo a tenersi a galla, ma anche a riprendere a crescita.
L’Italia, però, non riassume e non potrebbe riassumere la sua immagine estera soltanto nel mangiar bene e vestir bene. Italia vuol dire tecnologie petrolifere e automobilistiche, industrie meccaniche, settori nuovi come quello delle attrezzature sportive, che i cinesi conoscono bene, avendone acquistate in quantità ragguardevole per le Olimpiadi di Pechino del 2008. Vende inoltre servizi a cominciare da quelli delle Generali, primo gruppo occidentale del settore a «sfondare» nella terra di Confucio, dove gestisce il sistema pensionistico aziendale della maggiore impresa petrolifera. Per tutti questi operatori, un importante vantaggio competitivo dell’Italia è precisamente quello di essere italiani, ossia di appartenere a un Paese che non viene percepito come economicamente imperialista.
Né bisogna dimenticare che architetti, designers e artisti italiani hanno in Cina ottimi clienti, che, per quanto esigua, la percentuale di turisti cinesi in Italia è in rapido aumento e dovrebbe crescere ancora di più l’anno prossimo con l’Expo; e soprattutto che la Cina, ufficialmente e attraverso istituzioni finanziarie autonome, è tra i maggiori detentori del debito pubblico italiano, che non ha venduto, per lo meno in maniera «aggressiva», neppure nei momenti di maggiore difficoltà finanziarie dell’Italia. Dietro alla tenuta dell’euro e allo «spread» italiano che scende c’è anche la mano dei cinesi e gli stessi cinesi stanno investendo massicciamente nell’industria europea, compresa quella italiana, nonostante le difficoltà di operare in Italia. La People’s Bank of China, uno dei colossi bancari asiatici ha recentemente comunicato di essere salita oltre il livello del 2 per cento nel capitale di Eni e di Enel; e il capitale cinese è presente in molti settori produttivi.
Nel viaggio del presidente del Consiglio italiano si deve «leggere» quindi molto di più di un semplice tentativo di «piazzare» prodotti italiani, di favorire la ripresa dell’economia italiana. Anche se questo tentativo è indubbiamente importante, non avrebbe giustificato l’elevata priorità accordata alla visita a Pechino in un momento in cui Renzi è fortemente impegnato con le riforme italiane. Il fatto è che l’Europa a presidenza italiana si trova di fronte a scelte non facili e non scontate: se guardare a Ovest, oltre l’Atlantico oppure se guardare a Sud-Est, oltre le steppe, oppure se cercare una terza alternativa che rappresenti un compromesso tra le due. Per queste scelte, con la crisi dell’Ucraina alle porte dell’Unione Europea e la possibile scarsità di forniture energetiche nei prossimi trimestri, non c’è tempo da perdere.
mario.deaglio@unito.it
Mario Deaglio, La Stampa 10/6/2014