Giorgio Meletti, Il Fatto Quotidiano 10/6/2014, 10 giugno 2014
LA RIVOLTA DEI TRINARICIUTI
Non è dato sapere quanto abbia faticato il pisano Enrico Letta per non ridere mentre distillava la pensosa dichiarazione: “La sconfitta del Pd a Livorno merita una riflessione profonda perché del tutto inattesa”. Forse aveva in mente la sconfitta di un renziano livornese, soddisfazione doppia.
Ma la colorita chiave della rivalità con i pisani impallidisce di fronte alla catastrofe simbolica che si abbatte non su Livorno ma sulla casta post-comunista. La città simbolo della sinistra italiana festeggia la liberazione da un sistema che anche Il Tirreno, custode delle tradizioni politiche locali, ha accusato di “consociativismo, autoreferenzialità e immobilismo”.
È la storia stessa di Livorno a chiedere ai boss del Pd locale come abbiano potuto ridursi così. Non solo per quel monumento della memoria che è il congresso di fondazione del Pci, il 21 gennaio 1921, con Amadeo Bordiga, Antonio Gramsci e Umberto Terracini che guidano la scissione dal Psi (Palmiro Togliatti ancora pedalava nelle retrovie). Livorno è stata anche una piccola capitale del fascismo, a dispetto di una forte e radicata comunità ebraica e di un’altrettanto fiorente presenza massonica. Era la patria dei Ciano, che negli anni del regime portarono alla città soldi e raccomandazioni, e costruirono la celebre terrazza Mascagni, che però fino alla Liberazione si chiamò terrazza Costanzo Ciano, padre di Galeazzo, genero del Duce e ministro degli Esteri.
Martoriata dai bombardamenti “alleati” (illogici come i bombardamenti alleati di cui si lamenta oggi lo sconfitto Marco Ruggeri), nel 1944, poche settimane dopo la fucilazione di Galeazzo Ciano ordinata non dai partigiani ma dal suocero, Livorno fu affidata dal Cln a un intellettuale comunista ventottenne , Furio Diaz, poi celebre come storico. Fu l’inizio di una serie ininterrotta: fino a domenica, per 70 anni Livorno ha avuto solo sindaci comunisti, o post, eletti a furor di popolo.
Lo scambio era virtuoso. Il Pci affidava la sua città natale ai migliori livornesi in circolazione (dopo i dieci anni di Diaz ci furono i dieci del grande filosofo Nicola Badaloni). La città affollata di operai e portuali rispondeva con tale generosità da farsi sfottere con allegria come patria dei trinariciuti. Non solo con prestazioni in natura, come quella di accorrere al tribunale di Pisa quando c’era da dare qualche spallata ai radicali che tentavano per sfregio di togliere al Pci il posto in alto a sinistra della scheda elettorale (i pisani, avendo l’Università al posto del porto non avevano il fisico). Ma soprattutto con il voto. Lo score di Livorno è impressionante: il 18 aprile 1948, quando il Fronte popolare travolto dalla Dc si ferma al 31 per cento, a Livorno prende il 56 per cento. Nel 1976 il tentativo di sorpasso della Dc porta Enrico Berlinguer al massimo storico del 34 per cento, ma in valuta livornese fa il 53 per cento.
I livornesi sono pronti a svenarsi per qualsiasi cosa appaia anche vagamente di sinistra, dove però per sinistra si intende un profumo di pulito. Acclamano il concittadino Carlo Azeglio Ciampi, presidente della Repubblica non comunista, ma laico e antifascista senza ombre, eletto nel 1999 un po’ a sorpresa mentre la burocrazia del partitone trama per portare al Quirinale il democristiano Franco Marini. Si fanno piacere l’ex democristiano Romano Prodi, senza se e senza ma: alle politiche del 2006, praticamente l’altro ieri, le liste dell’Ulivo prendono a Livorno 81 mila voti, il 70 per cento.
I livornesi continuano a crederci, ma con fatica. Nel 2004 eleggono sindaco Alessandro Cosimi al primo turno con 54 mila voti, nel 2009 lo rieleggono ancora al primo turno ma con soli 46 mila voti. E domenica, al primo ballottaggio della storia di Livorno, il delfino di Cosimi si è fermato a 34 mila voti. I livornesi si sono stufati. Perché la fedeltà ai simboli è fatta anche di memoria. E a Livorno ricordano che Bordiga era sì ingegnere, ma non aveva amici costruttori. E Diaz e Badaloni non andava in ferie sugli yacht degli appaltatori... Come si dice? Ah sì, progressisti.
Twitter@giorgiomeletti
Giorgio Meletti, Il Fatto Quotidiano 10/6/2014