Valentina Saini, pagina99 7/6/2014, 7 giugno 2014
LA PRIMAVERA DIFFICILE DELLE ECONOMIE ARABE
IL CAIRO-TUNISI. A tre anni di distanza dalla Rivoluzione dei gelsomini – quella che ha dato inizio alla Primavera araba – Tunisi è tutta un cantiere. La città ronza di vita: nel caos della folla si vedono uomini in giacca e cravatta con il cellulare all’orecchio e il Financial Times (o Les Échos) in tasca, studenti concentratissimi sui loro smartphone, donne con l’hijab e la borsa di Prada. Lungo l’autostrada che dall’aeroporto internazionale di Cartagine porta al centro città, si susseguono gli stabilimenti commerciali e industriali, sia locali che stranieri. Quest’anno, in base alle stime del Fondo monetario internazionale (Fmi), il Pil tunisino dovrebbe crescere del 3% e nel 2015 del 4,5%. «In Tunisia ci sono grandi possibilità per fare affari, e non solo nel settore industriale», dice Mohammed, che ha deciso di lasciare l’Italia per tornare in Tunisia, dove coltiverà pomodori da esportare in Sicilia, «noi tunisini abbiamo il business nel sangue, vogliamo fare i soldi come voi italiani».
Duemila chilometri a est di Tunisi, al Cairo, la situazione è meno rosea (la crescita egiziana quest’anno non dovrebbe schiodarsi dal 2%), ma la voglia di fare della popolazione sembra essere la stessa. «Morsi, quando era presidente, ha cercato di obbligarci a chiudere alle otto di sera, ma non ce l’ha fatta», racconta, con orgoglio, Ali, proprietario di una libreria del centro del Cairo, «quando fa caldo la gente esce di sera, se chiudiamo alle otto come facciamo a vendere?».
Con l’eccezione della Libia sempre più instabile, e della Siria dilaniata dalla guerra civile, si respira una maggior fiducia in tutta l’area del Mena, acronimo con cui gli economisti identificano la regione del “Middle East and North Africa”, ossia il Medio Oriente e il Nord Africa. E questo vale anche per paesi fragili, o fragilissimi, come il Libano o l’Iraq. Non parliamo poi degli Stati del Golfo che, grazie al prezzo del greggio stabilmente oltre i cento dollari, hanno così tanta liquidità da poter investire alla grande in patria e all’estero. La notizia del sempre più probabile matrimonio tra Alitalia ed Etihad, la compagnia aerea di bandiera degli Emirati Arabi Uniti (Eau), è l’ennesima dimostrazione di un trend che vede gli sceicchi entrare nel capitale della Deutsche Bank, costruire grattacieli in tutta la Penisola araba, ambire a essere il nuovo hub tra Europa e Asia. Un dato su tutti: la somma dei Pil (a parità di potere d’acquisto) dei sei membri del Gulf Cooperation Council (Gcc), ossia Arabia Saudita, Emirati, Qatar, Oman, Kuwait e Bahrein, vale circa 1.800 miliardi di dollari; quasi come quello italiano.
«Rimaniamo cautamente ottimisti sulle prospettive per le economie dell’area». A dirlo a pagina99 è Shantayanan Devarajan, chief economist Mena della Banca Mondiale. «La crescita media della regione dovrebbe passare dal 2,6% del 2013 al 4,6% nel 2015, in parte grazie alla ripresa dell’economia globale. La maggior domanda a livello internazionale dovrebbe favorire l’export di energia e prodotti industriali. Ancora, i pacchetti di stimolo nei paesi del Gcc, e il flusso di aiuti finanziari al resto della regione, e in particolare a Egitto e Giordania, continueranno a incrementare i tassi di crescita».
Insomma, le economie arabe iniziano a dare segni di vitalità, dopo la lunga fase di rallentamento provocata dalle ondate rivoluzionarie del 2011. «I progressi politici nei Paesi in transizione», aggiunge Devarajan, «potrebbero portare a miglioramenti graduali dell’economia, sempre che vengano implementate riforme di lungo respiro».
Devarajan non è l’unico a pensarla così. Durante una visita nella capitale marocchina Rabat, all’inizio di maggio, il direttore del Fmi Christine Lagarde ha dichiarato: «La situazione economica dei Paesi arabi in fase di transizione sta migliorando. L’export sta aumentando così come gli investimenti pubblici, e ci sono segnali che fanno prevedere pure una crescita di quelli privati. Paesi come il Marocco stanno raccogliendo i risultati degli sforzi per diversificare e sostenere l’export e gli investimenti stranieri, soprattutto in settori ad alto valore aggiunto come quello automobilistico, aeronautico, elettronico. Niente è successo per caso, sono servite politiche concrete per arrivarci. La Giordania, ad esempio, ha rivisto la politica dei sussidi energetici, mentre la Tunisia sta riformando il sistema bancario».
Dopo le speranze della Primavera politica, e l’inverno del caos e dell’instabilità, per il mondo arabo potrebbe dunque cominciare una nuova Primavera: in questo caso, economica. Come segnalato, poco tempo fa, dal Financial Times, che ha dedicato un articolo alle economie arabe in via di miglioramento, rilevando un aumento dell’interscambio con l’Europa e un calo dell’inflazione alimentare (una delle micce delle rivoluzioni).
A parere di Devarajan, i punti di forza della regione sono tre: «Una popolazione altamente istruita (soprattutto le donne); abbondanza di risorse naturali; una prossimità geografica invidiabile ai mercati globali, specie l’Europa». Anche per questo il Nord Africa sta diventando un piccolo Eldorado dell’industria europea: a Tangeri sorge un gigantesco stabilimento della Renault che i media locali hanno definito «la più grande fabbrica d’auto dell’Africa» mentre Sanofi ha deciso di stabilire in Algeria «il suo più grande sito industriale» nel continente.
Oltre alle luci ci sono però le ombre. Molte ombre. Il Mena ha ancora tanta strada da fare. In primo luogo, il rischio di shock esterni grava sulle economie locali come una vera spada di Damocle: la ripresa globale resta fragile, purtroppo, e l’escalation di conflitti regionali (in Siria, ma anche in Ucraina) potrebbe avere ripercussioni significative.
I reali punti deboli della regione riguardano però il fronte interno. In primis l’alto tasso di disoccupazione, soprattutto tra donne e giovani. Come sottolinea Devarajan, «i giovani dipendono ancora dal governo e dalle imprese statali per un impiego, perché il settore privato resta debole. Ma i salari del settore pubblico contribuiscono ad aumentare il deficit fiscale. Il sistema educativo, inoltre, non è sufficientemente orientato ai bisogni del mercato. Il clima per gli investimenti è senz’altro migliorabile. Il problema è che manca, nella regione, un tessuto di medie aziende che possa crescere e creare posti di lavoro».
Non sorprendono quindi i dati sull’economia informale. Si va dal 17% della Giordania al 35% della Tunisia, che pure è la seconda economia più dinamica del Nord Africa dopo il Marocco. Persistono, infine, problemi politici significativi. «L’intera regione è caratterizzata da una governance debole e dalla corruzione, specie nel settore pubblico», conclude Devarajan.
Inoltre, se da una parte le prospettive economiche iniziano ad apparire meno cupe, è anche vero che i nuovi governi post-rivoluzionari hanno davanti a loro sfide titaniche; per risollevare l’economia, e creare occupazione, dovranno attuare riforme che rischiano di risultare profondamente impopolari. Il tema è all’ordine del giorno in Egitto, il più popoloso e importante paese arabo, dove l’ex comandante delle forze armate Abdel Fattah Al Sisi è stato appena eletto nuovo presidente. «Gli egiziani dovranno varare riforme difficili», spiega a pagina99 Mohamed El Dahshan, economista della Banca africana dello sviluppo (Afdb) e non-resident fellow dell’Atlantic Council, «bisognerà rivedere completamente il sistema dei sussidi, ridurre il settore statale, e implementare una legislazione che permetta al settore privato di crescere, e di trovare un ambiente economico favorevole. Allo stesso tempo lo Stato deve bilanciare le riforme con aiuti immediati alla popolazione, perché la situazione economica, già difficile, negli ultimi anni è peggiorata. Si dovranno trovare in fretta soluzioni per ridurre la povertà e aumentare la giustizia sociale».
Un obiettivo non facile. Che mette a rischio il futuro politico del nuovo rais. «Al Sisi avrà a che fare con un Egitto completamente diverso», dice Marco Alloni, scrittore ticinese residente al Cairo da quasi vent’anni, «se farà troppi passi falsi si troverà anche lui a dover fare i conti con una rivoluzione popolare». Alloni è relativamente ottimista sulle capacità “economiche” di Al Sisi. Idem Ahmed Alfi. Egiziano rientrato al Cairo dopo oltre trent’anni trascorsi in California, nel 2011 ha fondato Flat6Lab, il maggior acceleratore egiziano di startup tecnologiche, presente anche in Arabia Saudita e ad Abu Dhabi. «Ho voluto realizzare questo progetto al Cairo», racconta a pagina99, «perché penso non esista altro luogo al mondo con una disparità così marcata fra talento e possibilità di successo. Volevo dare una mano». Nonostante le mille difficoltà, gli esempi positivi non mancano. Basti pensare ai giordani Toukan e Khoury, fondatori di Maktoob, uno dei primi portali in lingua araba che il colosso Yahoo! ha acquistato nel 2008 per 175 milioni di dollari.
Sembra che i governi della regione stiano iniziando a capire l’importanza dell’innovazione, della tecnologia, dell’alta formazione. Almeno sulla carta. «La nuova costituzione egiziana prevede che il 3% del Pil venga destinato alla ricerca e allo sviluppo», dice a pagina99 Alaa El-Shazly, docente di economia presso l’Università del Cairo. Lo scorso marzo 22 Stati arabi hanno sottoscritto un’ambiziosa “Strategia araba per la scienza, la tecnologia e l’innovazione”. Ancora, i ricchi paesi del Golfo stanno investendo massicciamente in settori come le telecomunicazioni e le energie rinnovabili, così da far crescere l’occupazione di qualità e soprattutto diversificare la loro economia, ancora troppo dipendente dall’export di idrocarburi.
Qualcosa sembra muoversi, insomma. Rimangono però le incognite sulla capacità e (soprattutto) la reale volontà dei governi arabi di far decollare le economie dei loro Paesi: per decenni i regimi del Medio Oriente e del Nord Africa hanno preferito saccheggiare la ricchezza là prodotta, anziché ridistribuirla. «Finora gran parte delle popolazioni arabe sono rimaste escluse dai benefici della crescita, ed è proprio questa la grande sfida per la regione», spiega a pagina99 Samir Makdisi, professore emerito di economia all’Università Americana di Beirut.
Se i nuovi governi post-rivoluzionari non vogliono fare la fine dei loro predecessori (travolti dalle masse al grido di “pane, libertà, giustizia sociale”), dovranno ottenere un bel po’ di risultati. La pazienza sarà pure la chiave per l’avvenire, come recita un detto arabo. Ma, assicura uno studente di ingegneria dell’Università del Cairo, «abbiamo aspettato anche troppo».