Raffaella Polato, Corriere della Sera 10/6/2014, 10 giugno 2014
#ITALIAVOLTAPAGINA «INVESTIRE SU BAMBINI E ANZIANI LA VERA RICETTA CHE PRODUCE RICCHEZZA»
Gli anziani e i bambini. Il territorio e il mondo. Le radici e la crescita, il cambiamento, il futuro. L’Italia che volta pagina, perché ne vuole e ne può scrivere di migliori, sta certamente quasi tutta nel mezzo. Tra i giovani a caccia di un lavoro qui, ma pronti a costruirsi esperienze ovunque sperando poi di tornare. Tra gli adulti che il lavoro, quando non l’hanno perso in piena Grande Crisi, lo difendono come nient’altro non solo perché senza non guadagni e non vivi: perché è dignità. E identità. Perciò lo sanno bene, quei giovani e quegli adulti. Puoi scrivere migliori pagine domani se, oggi, non seppellisci in un cassetto le migliori di ieri. Per i bambini che diventeranno grandi, e lo faranno anche accanto ai nonni. Per il territorio che andrà nel mondo, e le radici non saranno necessariamente un freno.
Vale per gli individui, uomini e donne e qualunque siano i loro studi, la loro professione, i loro sogni. Vale per le aziende, che sono poi il posto in cui chi la fortuna — complicato di questi tempi trovare una parola diversa — di lavorare ce l’ha passa almeno la metà della propria vita da sveglio. È forse, anzi, è sicuramente per questo che una signora nota per la totale riservatezza qui, sul collante che lega i bambini agli anziani passando per i giovani e il territorio al mondo passando per le radici, concede l’unica eccezione a una regola familiare assoluta. Maria Franca Ferrero, moglie di Michele «l’inventore» (della Nutella), madre di Giovanni e dello scomparso Pietro, non vede ragioni di comparire in pubblico. Quasi mai. Uno di quei pochissimi «quasi» è la Fondazione Ferrero. Sta da più di trent’anni ad Alba, dove l’impero è nato e dove restano cuore-cervello dell’unico colosso mondiale del settore ancora completamente controllato, guidato, gestito dalla dinastia che l’ha fondato. E sarà questo, sarà l’effetto «capitalismo familiare», ma certo trent’anni fa di «responsabilità sociale delle imprese» non si parlava e di «anziani risorsa della società» forse meno ancora. E’ invece esattamente quello che la Fondazione fa dall’inizio.
La fondazione
Maria Franca, che ne è presidente, tutt’oggi si stupisce (e lo scrive nella prefazione al volume per l’anniversario) e lo confessa. «Solo in questi ultimi anni ci siamo resi conto che la Fondazione è un modello» promosso dagli studiosi: per loro in quel di Alba è sempre stato chiaro che la terza età è «una fase di ricchezza» da valorizzare. Lo testimoniano, fieri, i 1.800 ex dipendenti che la Fondazione la frequentano almeno una volta a settimana. Nessuno si sente chiuso in un recinto anagrafico, il testimone passa quotidianamente da una generazione all’altra. Via computer, per cominciare: e sono i nipoti che vanno a insegnare ai nonni. O via Asilo (aziendal-comunale, la “A” maiuscola che senti praticamente pronunciare), con i più piccoli del paese. Quelli per i quali Nina Grosso, 73 anni, 37 in Ferrero, è per esempio diventata «nonna fiaba». O quelli cui Carlo Verda, 80 primavere vissute quasi per metà in azienda, insegna a riconoscere le piante che coltiva nel piccolo appezzamento dell’Asilo: e lui è diventato, ovvio, «nonno Orto».
Storie minime, forse. Storie però solo all’apparenza piccole. Sono quelle che fanno una comunità, la rafforzano, ne segnano i legami. Ed è «anche» così che crescono «anche» le aziende. L’Italia che ce l’ha fatta negli anni del boom e ce la vuole fare ora, dopo la Grande Crisi, di racconti simili potrebbe narrarne a centinaia. La Ferrero è certo uno dei paradigmi. A trasformarla da piccola pasticceria di provincia in colosso globale sono state prima l’inventiva di Pietro, il fondatore, e poi la genialità di Michele e la continuità assicurata dai figli Pietro e Giovanni (rimasto solo alla guida del gruppo dopo la scomparsa del fratello). Senza «l’idea», non ci sarebbe stato nulla di speciale per sfondare nel mondo. Però se quello che è ormai il quarto big globale del cioccolato mantiene le radici lì, ad Alba, dove rimane la più grande delle quattro fabbriche nazionali e delle venti complessivamente sparse per il pianeta, un ruolo nella crescita l’hanno evidentemente giocato la forza della comunità e la reciprocità del rapporto.
Nuove strade
«Alba è la Ferrero e noi siamo la Ferrero», scrive con orgoglio Mario Corrado, 81 anni, 35 in azienda da tubista e poi capo officina. Lo si è visto nell’alluvione del 1994, venti giorni per eliminare l’acqua, proprietà e operai e impiegati insieme con gli stivali nel fango. Lo si vede un po’ anche dai conti. È la Nutella, definita da uno studio dell’Ocse del dicembre scorso «un esempio di globalizzazione virtuosa», che in cinquant’anni ha aperto al gruppo le strade dell’export in oltre cento Paesi. Ma è lì, nelle Langhe, dal territorio e dalla sua gente che il successo è stato costruito. Per cui anche oggi che i sei anni di crisi italiana si fanno sentire, e presentano il conto di un fatturato nazionale in calo per la prima volta nella storia Ferrero (2,697 miliardi, —5,3% dei ricavi in Italia parzialmente compensato dal +4,1% dell’export), nessuno pensa di andare sbrigativamente a toccare l’occupazione. Le vendite consolidate mondiali compensano ampiamente (8,1 miliardi, +5,6%), gli utili si continuano comunque a fare (anche se i 795 milioni prima delle imposte registrati dal consolidato mostrano un calo del 9,5%, mentre nella sola Italia i 156 milioni di profitti netti sono pur sempre il 5,3% dei ricavi). Quindi: non sono ancora tempi per tornare ad assumere, però la fiducia nella ripresa del Paese c’è e, nell’attesa, l’argine rimangono i 6.561 «collaboratori» divisi tra il Nord (Alba e Pozzuolo Martesana) e quel Sud che continua a essere l’emergenza delle emergenze nazionali. Del resto: è dopo un’altra di queste grandi emergenze, il disastroso terremoto del 1980 in Irpina, che sono state costruite le fabbriche di Sant’Angelo dei Lombardi e Balvano. E anche lì, anche per questo, il rapporto con il territorio è forte ed è cruciale. Almeno quanto quelle attività di comunicazione che per un’azienda di consumo sono essenziali. Dunque si spende, e tanto, in pubblicità tradizionale. Ma, pure qui, alla fine si possono unire l’utile e il social . Ancora una volta puntando sulle comunità. Solo per le sponsorizzazioni Kinder+Sport dal gruppo vanno al Coni, che a sua volta li trasferisce alle singole federazioni, suppergiù quattro milioni l’anno. Servono a finanziare le attività «junior», ad attirare verso atletica, scherma, basket, nuoto e quasi tutti gli sport «non ricchi» (quindi: niente calcio) bambini e adolescenti dai sei ai 18 anni. In un Paese in cui di sport i ragazzi ne fanno decisamente poco, e si vede a ogni Olimpiade, i numeri «mossi» parlano da soli: 1,5 milioni di giovanissimi coinvolti nel 2013, 2 milioni quest’anno. È certo un modo efficace di comunicazione di un marchio. Ma il Coni, prima, poteva solo sognarlo. Molte famiglie, in tempi in cui per tanti anche lo sport in sé sarebbe un lusso, idem.