Flavio Pompetti, Il Messaggero 10/6/2014, 10 giugno 2014
I MISTERI DEL SOLDATO BERGDAHL
NEW YORK
«Il governo americano non abbandona i suoi soldati nelle mani dei nemici» ha detto Barack Obama la settimana scorsa. Parlava dal cimitero monumentale di guerra in Normandia, sulla scogliera ad est di Omaha Beach dove l’esercito a stelle e strisce sbarcò settanta anni fa, e dove Steve Spielberg ha filmato nel 1998 il colossal "Salvate il soldato Ryan". Il film, che racconta l’eroico salvataggio di un marine catturato dai tedeschi, si ispirava alla storia dei cinque fratelli Sullivan, tutti morti sul fronte del Pacifico meridionale, e la cui vicenda dettò la regola citata venerdì scorso dal presidente.
Obama si riferiva in realtà ad un altro soldato, appena rilasciato dai guerriglieri talebani in Afghanistan: il sergente Bowe Bergdahl che da cinque anni era l’unico prigioniero americano di guerra nella campagna. Un video filmato dagli stessi guerrieri tribali e oggi trasmesso a ciclo continuo dalle televisioni in Usa mostra le immagini del rilascio avvenuto in pieno deserto. I talebani arrivano con una lunga carovana di furgoni, l’ultimo dei quali ha il prigioniero a bordo. Un elicottero Black Hawk atterra a poca distanza, e nel giro di minuti riparte con un disorientato Bergdhal a bordo.
LA MISSIONE
A prima vista questo sembra il racconto di una missione di successo, ma in realtà dal momento dell’apparizione del video, Obama si trova sotto il fuoco incrociato dei politici e dei media che denunciano l’accaduto come un vile svendita della diplomazia di Washington. Bargdahl intanto è tenuto al riparo in un ospedale militare tedesco. La cittadina natale di Hailey in Idaho ha cancellato i festeggiamenti che aveva preparato in suo onore, e la sua reputazione è stata trascinata nel fango dall’accusa infamante di essere un disertore.
Bowe Bergdhal si era arruolato con entusiasmo a ventidue anni, convinto come molti suoi commilitoni che sarebbe andato ad aiutare la popolazione afghana a difendersi dai fanatici attivisti talibani. Era un giovane devoto all’azione, e sognava risultati immediati. È stato invece spedito nella postazione sperduta di Mest Malak, una fortificazione improvvisata in mezzo al nulla nella regione di Paktika tra Kabul e Kandahar. Turni di guardia interminabili, noia, paura continua di attentati: il rigore militare della sua divisione era scaduto a livelli goliardici come testimoniano le foto di soldati in bandana e t-shirt, e l’ideale che lo animava stava sparendo. Bergdahl aveva iniziato a familiarizzare con i contadini afghani della regione e parlava la lingua pashto con la milizia locale che difendeva la postazione. In uno degli ultimi messaggi alla famiglia ha scritto: «Il futuro è troppo prezioso per essere perso nella menzogna. Il mio comandante è un vecchio scemo arrogante, e la nostra missione è un fallimento».
LA SPARIZIONE
Pochi giorni dopo Bergdahl è scomparso. I suoi commilitoni dicono ora che non era la prima volta che abbandonava il suo posto di combattente per andare a trovare gli amici afghani. Nell’ultima passeggiata è stato catturato e consegnato ai talebani che lo hanno tenuto prigioniero. Prima in una casa civile in regime di scarso controllo, e dopo una paio di tentativi di fuga, rinchiuso in una gabbia metallica. All’inizio è stato torturato e minacciato di morte più volte, ma alla lunga è stato trattato con rispetto, e oggi non mostra ferite profonde.
LA TRATTATIVA
La Casa Bianca da anni cercava la strada del negoziato con i Talebani per il suo rilascio. Fino a pochi mesi fa sembrava che la liberazione potesse entrare nel quadro di un accordo a largo raggio che chiudesse l’avventura militare Usa in Afghanistan. Poi i talebani hanno abbandonato la trattativa e l’unica porta aperta è rimasta la loro richiesta di liberare cinque dei loro capi detenuti nel carcere cubano di Guantanamo. Obama che fino a quel punto aveva informato il Congresso delle trattative, ha accettato di trasferire i cinque in Qatar, senza consultare la commissione Difesa del Senato, dalla quale ora la sua collega di partito Feinstein lo bombarda di accuse. I repubblicani pensano di avere in mano un altro macigno da giocare alle prossime elezioni di midterm e hanno circondato la Casa Bianca con una carovana di proteste, con la rete televisiva Fox che fa da grancassa.
Il soldato Bowe resta nel frattempo un enigma. Nell’ospedale tedesco rifiuta il titolo di sergente che gli è stato concesso durante la prigionia. Non ha risposto all’unica lettera della sorella e non comunica con i genitori, che vedrà forse nella base medica di San Antonio in Texas, dove sarà presto trasportato. Niente lieto fine hollywoodiano per lui. L’epilogo della sua storia è piuttosto in sintonia con il pessimo copione della guerra che l’ha preceduta.