Andrea Taffi, Il Messaggero 10/6/2014, 10 giugno 2014
A PESCARA LA VITTORIA DI ALESSANDRINI:
HO ELABORATO L’OMICIDIO DI MIO PADRE –
IL PERSONAGGIO
PESCARA La tentazione sarebbe quella di usare un binocolo al contrario oppure una lente da entomologo. In realtà per raccontare Marco Alessandrini, neo sindaco di Pescara di area democrat, uscito dal ballottaggio addirittura doppiando il sindaco uscente di Forza Italia dopo aver preso il 43% al primo turno, servirebbe qualcosa di meglio, forse un grand’angolo. Certo, l’agiografia della politica locale e delle battaglie per la legalità lo hanno da tempo ancorato a quel lontanissimo 29 gennaio del 1978 quando suo padre, il giudice Emilio Alessandrini venne assassinato a un semaforo a Milano da un commando di Prima Linea. Marco era a scuola, aveva 8 anni, e ce lo accompagnò suo padre qualche minuto prima di essere massacrato.
L’altra agiografia, quella delle storie degli impossibili percorsi di rivincita, lo fotografa nella notte tra domenica e lunedì scorso, mentre sale la scalone del Palazzo del Comune affiancato dal suo mentore politico, il neo governatore abruzzese Luciano D’Alfonso, che lo ebbe come assessore nel secondo mandato da sindaco di Pescara nel 2008. Marco si era candidato consigliere con il Pd ma non era il treno buono: qualche mese dopo, D’Alfonso finì inquisito e arrestato per presunte tangenti, poi assolto. Alessandrini invece rotolò via, sedotto e abbandonato due volte: perso il posto da assessore si offrì come vittima sacrificale alle successive Comunali, sempre a Pescara, e cedette di sei punti. Ora, tornato D’Alfonso, anche Alessandrini si è preso la sua rivincita.
In mezzo ai due estremi c’è «la lunga metabolizzazione del dolore»: il neosindaco la chiama così ma poi preferisce glissare con sobrietà sul suo rapporto con il padre e l’infanzia rubata. Anche ieri, in conferenza stampa, appena un accenno velato: «Per prima cosa stamattina sono andato a trovare i miei cari al cimitero».
Bisogna allora risalire alle testimonianze di impegno civile o a qualche rara intervista sul punto. «Nell’intimità domestica - raccontò anni fa a La Storia siamo noi - non ho mai avuto la sensazione che mio padre svolgesse un’attività straordinaria. Il suo lavoro di solito restava fuori casa. Ma io ero un bambino, non so se mia madre avesse percepito qualche cosa di diverso». Il filo spezzato è ancora lì che penzola. «L’ho sempre chiamato per nome, Emilio, e mai papà a testimonianza di un rapporto speciale, di complicità di amicizia che c’era tra noi». Invece a Mario Calabresi, con cui condivide la morte violentà del padre per mano eversiva, rilasciò dichiarazioni amare dopo aver visto il film «La Prima linea» tratto dal libro «Miccia corta» di Sergio Segio. «Diciamo la verità: è un film superficiale, come superficiali erano quei terroristi degli Anni Settanta. Perdonami la franchezza: erano dei deficienti, degli idioti in senso tecnico che giocavano alla guerra».