Gianluca Iazzolino, Il Fatto Quotidiano 9/6/2014, 9 giugno 2014
SENZA STATO NÉ BANCHE TUTTO STA NEL TELEFONINO
da Hargeisa (Somaliland)
Muraglie di banconote fanno ombra ai cambiavalute accovacciati dietro tè fumanti, un rosario islamico in una mano, un cellulare nell’altra. L’emblema sui bigliettoni, logori e scoloriti, evoca un Paese che, ufficialmente, non esiste: il Somaliland. Eppure ad Hargeisa, la capitale di questo lembo settentrionale di Somalia scampato alla guerra e in attesa di riconoscimento internazionale, l’economia vibra, eccome. Se non nel denaro visibile, quello emesso dalla Banca centrale per puntellare un anelito di sovranità, per lo meno in quello invisibile. “Ci sono più soldi qui dentro che in tutta questa strada”, dice Hassan sollevando il suo cellulare. Quanto? Ottanta, centomila. Dollari. Zaad è il nome con cui i pastori nomadi, che da sempre percorrono il Corno d’Africa con le mandrie, indicano il necessario di viaggio, quanto basta per sopravvivere per giorni in solitudine su queste distese riarse. Ma, dal 2009, Zaad è anche un servizio finanziario che trasforma i cellulari in portamonete. La piattaforma, lanciata dall’operatore mobile somalo Telesom, ha suscitato l’entusiasmo della GSMA, l’associazione della telefonia mobile mondiale con sede nella City londinese, che l’ha definita un caso da manuale. Per gli esperti di sviluppo internazionale, questa è la chiave per l’inclusione finanziaria, ennesima formula magica nella ‘lotta alla povertà’ che mette d’accordo profit e no-profit. Una volta aperto un conto Zaad con Telesom, basta un sms per pagare stipendi o acquistare khat, lo stupefacente leggero importato dall’Etiopia e masticato ovunque. In Africa sub-sahariana ci sono oltre 80 servizi di ‘mobile money’ e il numero sale. La piattaforma M-Pesa, lanciata nel 2008 in Kenya da Safaricom, è studiata e imitata nel mondo: ogni mese, transitano sulla sua rete un miliardo e duecento milioni di dollari. Ma il caso del Somaliland si staglia su tutti. Proprio come questo Paese ai margini del sistema internazionale, eppure al centro di flussi che uniscono gli Stati Uniti a Dubai, il Regno Unito alla Cina.
“Da noi non ci sono banche commerciali:ecco perché Zaad era necessario”, racconta Abdikarim Mohamed Eid, l’amministratore delegato di Telesom. “Così abbiamo studiato M-Pesa e l’abbiamo adattato alla realtà locale.” Il che significa innanzitutto niente costi di servizio. Telesom consente chiamate e transazioni solo tra i suoi utenti, che possono usare Zaad gratuitamente ma continuano ad acquistare credito telefonico Telesom. I ricavi sono così sulla fidelizzazione dei clienti, il 10% su 3,8 milioni di abitanti. Commercianti e studenti, dipendenti pubblici e nomadi, con batterie solari montate su dorsi di cammello, in cerca di pascoli e campi telefonici. Il mercato Mahmoud Haybe, alla periferia di Hargeisa, brulica di mercanti e bestiame. Le contrattazioni sono affidate alle dita, prima celate da panni bianchi per sottrarre il negoziato alla vista altrui (afferrare una mano è chiedere cinquemila, pizzicare un dito è rilanciare di mille), poi su tastiere telefoniche per concludere. Cellulari penzolano da colli di donne in veli colorati. Adan, un intermediario, gestisce flussi di vacche e cammelli tra l’Haud etiope e Aden, in Yemen, dove sbarca il bestiame destinato ai mercati della penisola arabica. Sono affari d’oro, soprattutto a Eid e Ramadan. “Con Zaad pago i guardiani delle mandrie e gli agenti che si occupano della traversata” , dice. I soldi mobili possono essere facilmente recuperati in caso di smarrimento o furto del telefono. Ma questa sicurezza riguarda soprattutto la valuta di riferimento, i dollari americani, che scherma il valore dall’inflazione, una nuvola nera sempre all’orizzonte. Gli scellini valgono poco più della carta su cui sono stampati ma i dipendenti pubblici sono pagati in valuta locale e, ogni mese, se ne tornano a casa con sacchi pieni di banconote. I cambiavalute oliano il sistema, smaterializzando gli scellini in denaro Zaad o in dollari. Le ricevute dei trasferimenti disegnano la geografia delle migrazioni somale, rifugiati e uomini d’affari, pendolari tra il Golfo e Hong Kong, il Minnesota, centro americano della diaspora somala, e Mogadiscio, dove il governo di Mahmoud Sheik Hassan tenta di attrarre investimenti, tra le bombe di Al Shabaab e la corruzione che erode dall’interno. Il denaro scorre in canali finanziari lubrificati da rapporti di fiducia fondati su clan e riservatezza. Nel mondo islamico questo sistema è noto come hawala. Per secoli ha consentito ai mercanti di muovere capitali tra il Mar Rosso e l’Indonesia. Oggi, agenti di hawala muovono denaro dalla Finlandia ai campi profughi africani, o costellano i percorsi dei migranti in viaggio per la Libia, permettendo di acquistare un passaggio dopo l’altro, una rimessa alla volta.
Grattacapo per le agenzie antiterrorismo occidentali, per le quali il sistema è una scatola nera per il riciclaggio; ma anche un tubo d’ossigeno per rifugiati e sfollati nel Corno d’Africa, secondo lo organizzazioni internazionali, che usano compagnie di hawala per veicolare finanziamenti a ong in Somalia. Su tutte, Dahabshiil, un colosso nel campo, con quartier generale ad Hargeisa e uffici a Londra e Dubai. Zaad è l’evoluzione tecnologica della specie, pronta a varcare i confini, intrecciandosi alle reti transnazionali dell’hawala. Del resto, il fondatore Sheik Ahmed-Nour Mohamed Jimale, un tycoon della telefonia mobile in Somalia, era fino al 2001 il numero uno di Al Barakaat, agenzia di rimesse chiusa dal dipartimento di stato americano all’indomani dell’11 settembre per presunti legami con Al Qaeda, e poi scagionata.
L’anomalia del Somaliland la dice lunga sulle dipendenze coloniali di ieri e umanitarie di oggi. Per gli inglesi, questa era nient’altro che una fonte di approvvigionamento per il presidio di Aden, sulla sponda opposta del Mar Rosso, avamposto strategico sulla rotta per il gioiello della Corona, l’India. Per il resto, lasciarono mano libera ai nomadi locali, innamorati della poesia e delle armi. Il fascismo, invece, immaginò la sua Somalia come un’appendice italiana sull’oceano indiano, con tanto di Lido e via Roma. Ridisegnò rapporti di potere e ruoli di forza e svuotò le autorità tradizionali, esperte da secoli nella risoluzione di conflitti. L’indipendenza realizzò una bizzarra alchimia post-coloniale, fondendo le due colonie in un’unica repubblica somala. Il colpo di stato di Siad Barre riallontanò il nord, povero e dominato da un unico clan, gli Isaq, dal sud, conteso da una miriade di fazioni. Negli anni Ottanta, le aspirazioni autonomiste del Somaliland provocarono il giro di vite del regime di Mogadiscio. La sanguinosa offensiva scatenata nell’88 rase al suolo Hargeisa ma accelerò il collasso della Somalia, che precipitò nella guerra civile. Il Nord restò a galla grazie a un incessante negoziato tra leader politici e religiosi, uomini d’affari e capiclan. Da quella discussione, nel 1991, uscì uno stato e degli equilibri più o meno stabili. Il Somaliland è riuscito finora a evitare infiltrazioni terroristiche. Eppure, non è in grado di scrutare nelle casse di Telesom o Dahabshiil, colossi economici al di lá della portata dello stato. È un confronto alla pari, quello tra istituzioni e businessmen, comune a tutta la Somalia. Ma mentre ad Hargeisa ha trovato un equilibrio, a Mogadiscio la commistione tra i ruoli ha prodotto aberrazioni. I cosiddetti “signori della guerra” erano nient’altro che imprenditori armati fino ai denti che imponevano ordine per proteggere i propri interessi. Su tutti, il controllo degli aiuti internazionali. Il Somaliland finora non ne ha visti. E questa è stata la salvezza. Ora il Paese punta sull’innovazione per proiettare all’esterno un’immagine di stabilità. L’inclusione finanziaria non basta: secondo Mohamed Behi Yonis, ministro degli esteri, il Somaliland è pronto per essere il prossimo stato africano. Con benefici per l’intera regione. “Siamo riusciti ad evitare la guerra e a contenere il terrorismo. Possiamo contribuire al bene della Somalia. Ma il nostro futuro è l’indipendenza.”
l’autore ringrazia la European Journalist Foundation
Gianluca Iazzolino, Il Fatto Quotidiano 9/6/2014