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 2014  giugno 09 Lunedì calendario

PIÙ DI UN FILM, È GOMORRA-CITY


Scampia (Napoli)
O Cì, ’o Cì”. Un sorriso. Un altro sorriso. E poi: “Veramente mi chiamo Marco... piacere”. E allora “‘O Mà, ’o Ma”. E si stringono mani, e volano baci, e “pigliatevi nu café”. Non l’espresso, ma la moka piccola poggiata sul bancone del venditore di biglietti della metro usati (sì, usati ma ancora buoni perché non scaduti). Nero, bollente, ottimo. Anche dentro dei bicchierini di plastica, anche fuori la stazione tra polvere, calcinacci, scale mobili mai terminate, insegne sbiadite e un enorme cartellone con su scritto: Benvenuti a Scampia. Marco D’Amore lo sorseggia e ringrazia. Marco è Ciro. Il fetente più fetente della serie Gomorra, è il cattivo, l’ommo e niente che tradisce il clan. “È proprio ‘na latrina... vedete come ha torturato e ucciso quella ragazza... ”, commento di un fan che si è immedesimato troppo nella storia. Per la prima volta torna sul luogo del set, nel cuore del male, tra le piazze di spaccio, luoghi di guerra, inespugnabili bunker dove camorristi dai nomi (e dai soprannomi) altisonanti regnavano quasi indisturbati. Per lui un passaggio brusco dalle scuole di teatro prestigiose, poi il legno dei palcoscenici con Toni Servillo, fino al volto duro di una realtà che si mescola con la fiction. La possiede, se ne appropria fino a ingravidarla.
Scampia, lotto G, il bar si chiama “Caffé Partenope”, le tazzine volano, le coronarie sono a rischio. “’O Cì fatti ‘na foto co’ piccirillo!”. Mamma con bambino irregimentato in un regolare grembiulino delle elementari. “Ciro si gruosso”, la piccola peste è entusiasta. Ha già visto tutte le puntate, e quelle che si è perso le potrà acquistare sulla bancarella di fronte dove per un euro ne compri due registrate sui cd. Prezzi modici. Lo avviciniamo, tentiamo di fargli un discorso, di capire se la violenza della fiction non rischia di rovinare la sua innocenza. E il bambino ci anticipa, più sveglio dei suoi otto anni. “So cosa mi vuole chiedere, lo so, Ciro mi piace, ma io sono bravo, voglio studiare”.
IL FRATELLO DI PITBULL
Negozio di frutta, sala scommesse, ambulatorio medico (dentista, ginecologo, ortopedico... ), tutto insieme. Vincenzo Fabricino, stazza da lottatore di Sumo, braccia come tronchi d’albero minuziosamente tatuate, abbraccia Marco l’attore e scherza. “Le spalle te le guardo io”. Perché nella fiction, dove Vincenzo è uno dei caratteristi, è davvero il bodyguard di Marco-Ciro. “Ho recitato in diversi film, da quando sono uscito da Poggioreale questa è la mia strada”. Poggioreale, il carcere, Vincenzo, che qui chiamano Enzo ‘o pitbull, lo ha frequentato per qualche anno. “Poi – racconta – con la morte di mio fratello ho capito tante cose... ”. “Digli come è morto tuo fratello”, lo sollecita un amico. “L’hanno acciso... ”. Nella lunga guerra di Scampia tra il clan di Ciruzzo ’o milionario e la sua banda, contro gli “spagnoli”, gli “scappati”, o ancora “scissioniti”: a quel tempo, anno 2004, il Lotto G era una sorta di Fort Alamo degli uomini del Milionario. Un pomeriggio due incappucciati su una moto “fecero Casamicciola”, dicono da queste parti quando vogliono descrivere una scena da Far West, e lasciarono a terra due persone. Uno era Ciro, il fratello di Enzo. Finzione e realtà sono terre senza confini a Scampia. Gaetano Di Vaio nella serie è “Baroncino”, consigliori del clan Savastano per gli affari di droga. “Non è il film che ci danneggia – risponde a chi, ancora una volta, ha riempito Napoli di manifesti contro Gomorra – ma è la realtà che ci distrugge”. Anche Gaetano nella sua altra vita ha conosciuto i rigori di Poggioreale. Rapinatore, spacciatore, “la sera quando tornavo a casa buttavo sul letto le banconote che avevo guadagnato e mi ci tuffavo dentro”, racconta nel suo libro Non ci avrete mai. Anche lui come Enzo e gli altri che dal marciapiedi sono passati al set, si è salvato con i film e i libri. Si guarda intorno e sentenzia: “Il nostro è cinema che prende e restituisce”. Ha ragione. La fiction prende dalla realtà la storia della povera Gelsomina Verde. Era bella, ma aveva scelto male il fidanzato, guerriero sconfitto nella lunga notte di Scampia. Un giorno, ed era il 22 novembre del 2004, la rapirono e la torturarono per ore. Le spaccarono le ginocchia a mazzate, ma lei non parlò e non per omertà, semplicemente perché non sapeva dove fosse il suo uomo. La ritrovarono carbonizzata in un’auto. “Sì, il nostro cinema restituisce”, ripete Marco-Ciro, attore di buone letture. “Restituisce alla gente di Scampia il coraggio di guardarsi allo specchio, la forza di dire noi siamo stati anche questo”.
Corso Marianella, periferia di Napoli, palazzoni dove una volta c’erano le case con i cortili e fuori la terra da coltivare. Nella panetteria-salumeria-vineria (un negozio così Totò lo chiamava casanduoglio), una signora chiede l’ennesima foto con Ciro-Marco, poi si lamenta: “Bella fiction, ma troppa violenza... ”. Il salumiere la blocca: “Signò, quando mai, queste sono scene che abbiamo visto davvero. Ve lo ricordate il povero Lino Romano?”.
L’OMICIDIO (CASUALE) DI LINO
Pasquale Romano, detto Lino, a mezzanotte del 15 ottobre 2012, volle dare un bacio alla fidanzata. Fermò un attimo la macchina sotto il portone, salì su, sfiorò le labbra della ragazza e via. Scese, aprì la portiera dall’auto e morì. Freddato da una raffica di colpi. Lino era un operaio, lo avevano scambiato per un camorrista nemico. Finzione e realtà. “Ero appena tornato a casa, quella sera – racconta Gaetano – in tavola due supplì comprati poco prima, subito una serie di colpi secchi. Hanno fatto ‘nu piezzo (nello slang della camorra ’o piezzo è un omicidio), pensai. Deluso, depresso, vinto da tanta violenza, mi barricai in casa”. Ciro-Marco, fetente solo nella finzione, ascolta quasi impietrito. Cento morti, attentati, macchine saltate in aria, le Vele trasformate in fortini, i territori divisi. La Vela gialla agli spagnoli, la Rossa agli altri, le Case dei Puffi piazza di spaccio per la cocaina, e poi l’eroina a fiumi, il kobrett e le altre droghe sintetiche che hanno “schiattato” le vene e il cervello della gioventù. La chimica applicata alla marijuana per rendere più dipendenti. Sono i numeri della guerra di Scampia, città nella città, esperimento urbanistico fallito, Napoli senza Napoli, 75 per cento della gioventù senza lavoro e senza futuro. “Ciro! Facciamoci un selfie!”, altra richiesta, questa volta da un uomo di circa quarant’anni. “Sei un grande, un grande!”. Perché? “(Silenzio, poi una smorfia come di pudore) Vivo qui da sempre, e da sempre ai margini da certe cose. Forse per la prima volta ho capito cosa vuol dire stare dall’altra parte”. Cosa vuol dire spacciare da bambini, vivere con le armi in casa, un cazzotto a prescindere, questione di onore; l’amico ammazzato, l’altro drogato, la galera è un appuntamento scontato. Non è fiction. “Ma anche qui c’è una sorta di crisi – continua Di Vaio – Una volta se volevi entrare nel giro era facile, ora c’è la fila, con i boss che ti dicono ‘mi dispiace, siamo al completo’”. L’Antistato non garantisce più come prima, esattamente come da sempre lo Stato. DAI VISITORS ALLA PEDANA PER IVAN
“A Cì, non mi è piaciuta l’ultima puntata, per niente proprio, c’erano ‘e creature davanti a’ tivvù! Non si possono dire certe cose...” sibila Omero, occupante abusivo dentro le Vele. “A cosa ti riferisci?”, chiede Marco. “La scena del pompino, quella frase alla fine, non va bene, non si può! Ci stanno ‘e creature...”. La violenza riescono a spiegarla, la morte pure, al fetore ci si fa l’abitudine, il sesso resta un tabù. “Vabbuò, andiamo dentro, attenzione agli scalini”, continua Omero. Lui e Lorenzo sono tra i promotori del comitato dedicato alla Vele, divisi in “occupanti assegnatari” e “occupanti abusivi”, in tutto 450 famiglie, circa duemila persone in attesa di speranza. “Qui ci sono cresciuto, ma non abituato”, insiste Lorenzo. Impossibile non capirlo. Le scale sono un optional, i cocci una certezza esattamente come l’amianto; alcune finestre murate, altre con grate più spesse delle sbarre in galera. Nessun panno stesso, nessuna piantina, nessun riferimento a forma di vita oltre i pochi che osano camminare. “Vedete là sotto – indica Marco – Lì abbiamo girato alcune scene, lì vivono i ‘Visitors’, i tossici all’ultimo stadio. Per entrare la produzione ha impiegato una settimana a pulire. Strati su strati di merda”. Crick, crick, ogni due passi si schiacciano vetri misti a cocci. Arriva un ragazzo su una sedia a rotelle elettrica, solo, paralizzato dalla testa in giù perché caduto dal letto. Si chiama Ivan, il nome stampato sul retro del mezzo. “Uè, Ivan, te voi fa ‘na foto?”. Sì, grazie. “Per lui abbiamo chiesto, non so quante volte, un aiuto da parte del comune per facilitare la sua mobilità qui dentro”, spiega Lorenzo. Risultato: niente. Secondo risultato: un gruppo di occupanti ha trovato i pezzi, li ha sistemati, incastrati, limati, testati. “Otto mesi di lavoro volontario”.
Una donna si affaccia dalla finestra, saluta la star. Chiama la figlia indaffarata dentro casa, affianca la madre. “Qui abbiamo girato la scena dell’iniziazione, quando insegno al figlio del boss come si uccide – continua Marco – Alla fine del ciak mi sono sentito male dalla tensione, mentre sopra di noi centinaia di persone, la maggior parte ragazzi, erano esaltati”. “Sai cosa penso?”, chiede Omero. Prego. “Lo Stato ci vuole così ridotti, noi siamo manovalanza per altri”. Isolati. Circondati. Anche schifati dalla maggior parte delle persone. Utili per altri. “No, lì meglio non andare, non è il caso”. Meglio non alterare il normale processo della giornata, con vedette, piazze di spaccio, contanti che passano di mano, ragazzi senza casco, qui è preferibile mostrare il volto se non si hanno cattive intenzioni. “Noooo! Ciro! Sei tu?”. Subito un selfie con una ragazza e sua madre. “Possiamo farti una domanda? Ma alla fine muori? Ti prego, dicci che non muori...”. La risposta non è consentita, questione di contratto. Ma per le due qualcuno deve pur sopravvivere dentro Scampia, anche solo per fiction.
Twitter: @A_Ferrucci ed @enricofierro1

Alessandro Ferrucci ed Enrico Fierro, Il Fatto Quotidiano 9/6/2014