Marco Ansaldo, La Stampa 9/6/2014, 9 giugno 2014
BERRUTI E I 100 ANNI DEL CONI “NOI ERAVAMO POVERI MA BELLI”
[Intervista a Livio Berruti] –
Livio Berruti i suoi 200 metri ai Giochi di Roma sono, sia per la gara sia per l’occasione, ancora un’immagine, forse il simbolo, di 100 anni di sport italiano, che nel ‘60 era a metà percorso. Come era allora il rapporto tra lo sportivo e il Coni?
«Era un’entità lontana, le federazioni facevano da intermediario. C’erano un senso della gerarchia e il rispetto delle competenze. Quasi non esistevano le invasioni di campo».
Neppure alle Olimpiadi di Roma?
«Pensi che, quando vinsi, Giulio Onesti, presidente del Coni, non comparve, non ne fece una medaglia personale, nè prese i meriti per sè e per le istituzioni. Negli ultimi anni le cose sono un po’ cambiate».
Che tipo era Onesti?
«Aveva lo stile del politico gioviale e bravo a ottenere con la mediazione. La sua idea di gestire il Totocalcio fu geniale e con quelle entrate lo sport si poteva autogestire. È quanto non si capì molti anni dopo con il disinteresse per il Superenalotto e con le scommesse: non si intuì che avrebbero soppiantato il Totocalcio. Oggi è inevitabile che l’intervento politico sia più pesante perché è la politica che decide le risorse dello sport».
Sarebbe cambiato qualcosa con un ministero dello Sport?
«Il Coni lo è stato di fatto, anche nella sua elefantiasi e nella burocrazia. Però aveva più libertà operativa di un ministero, soprattutto per la gestione della giustizia sportiva che era un vanto visto che arrivava a decidere prima di quella penale o civile. L’ambiguità è cominciata con Mosca ‘80, accettare l’ipocrisia di escludere gli atleti militari».
Torniamo ai mitici Sessanta.
«Il Coni badava soprattutto a farci rispettare il dilettantismo e lo faceva con una pedanteria da Inquisizione sebbene su certe cose chiudesse i due occhi, come per la presenza ai Giochi di Rivera. Invece io fui processato per una foto parapubblicitaria. A capo dello sport mondiale c’era Brundage: per chi è molto ricco fare il moralista è facile».
Come si campava?
«Era una lotta per rientrare nelle spese. Nel ‘57 andammo a Roma in treno di 3ª classe, alcune atlete dormirono nelle rastrelliere. Però c’era solidarietà, amicizia, coesione, partecipazione emotiva. Come succede tra i poveri».
Quanto le fruttò l’oro olimpico?
«Un premio di 800 mila lire più 400 mila per il record del mondo: ne spesi quasi il doppio per comprare una Giulietta Sprint. Io poi ero negato per le trattative. Per gli organizzatori di grandi meeting ero lo specchietto per le allodole ma non prendevo una lira e nemmeno i premi in natura che davano ai mezzofondisti, più bravi a chiedere perché avevano maturato l’abitudine con le corse di paese».
E dagli sponsor?
«Tranne per il ciclismo che era più avanti, il cambiamento fu negli Anni Settanta, quando le aziende scoprirono che l’atleta era una cassa di risonanza. Prima, per salvare la faccia del dilettantismo, sponsor e pubblicità facevano a qualcuno i contratti con la clausola che i soldi li avrebbero avuti solo a fine carriera. Non era vero ma la forma era salva».
Insomma, un’aria da poveri ma belli?
«Pochi pensavano che avrebbero potuto vivere di sport, perciò ci si allenava ma si preparava un futuro diverso. C’era goliardia. A Formia, in ritiro, ci annoiavamo da morire e Ottolina diffuse la voce che sul campo di allenamento ci sarebbe stata una grande prova di paracadutismo. Arrivò gente da tutte le parti ma di aerei manco uno. Finché si presentò lui, salì su una scala da imbianchino, aprì un ombrello e si lanciò. Questo succedeva. Per me il vantaggio era anche di fare il turista gratis: a qualsiasi livello lo sport ti dava un’apertura sul mondo che a quei tempi i nostri coetanei non potevano avere. E quasi non c’era stress».
Che altro non c’era? Il doping?
«C’erano le “bombe” dei ciclisti, farmaci che aiutavano nella singola performance anche se fecero dei danni, come con Simpson. Non esisteva un sistema di farmaci, anche leciti, come ora. Era un mondo più ingenuo. Una volta un saltatore azzeccò una prestazione formidabile e raccontò che la sera prima aveva fatto l’amore alla grande. La voce si sparse e da quel momento ci provarono in tanti come se fosse la panacea finché lo stesso saltatore nella gara successiva fece il proprio record. Ma in negativo».
Come vede oggi il rapporto del campione con le istituzioni?
«È più equilibrato, gli atleti hanno più peso perché alle loro spalle c’è il business. 1Allora le istituzioni avevano tutto il potere, anche di fissare regole stupide per ottenere maggior disciplina. Il contraltare è che devi rendere sempre al massimo, non puoi permetterti passi falsi e perdi la privacy».
Anche lei la perse per la storia con la Rudolph.
«A Roma si fece molto rumore per le mie passeggiate con lei, ma tutto durò poco e fu scritto in maniera pulita, senza malizia».
Quanto sarebbe diverso oggi il Berruti campione?
«Almeno per i velocisti si diceva allora che l’essenziale fosse la freschezza e io l’allenavo lavorando poco, tre volte la settimana, solo due se si gareggiava la domenica. Oggi sarebbe impossibile. E poi sono un anarcoide, come lo sono spesso i velocisti: non so fino a che punto avrei resistito al richiamo del business per difendere la mia indipendenza e autonomia. Temo che avrei ceduto, diventando un ottimo paziente per uno psicologo».
Marco Ansaldo, La Stampa 9/6/2014