Nicola Pinna, La Stampa 9/6/2014, 9 giugno 2014
“IO, MEDICO, HO AIUTATO A MORIRE UN CENTINAIO DI PAZIENTI GRAVI”
[Intervista a Giuseppe Maria Saba] –
L’ha vista di spalle l’accabadora, nella camera di un tubercolotico che non riusciva a respirare e che un prete sperava di liberare dal demonio. Nel 1953 Giuseppe Maria Saba era ancora un giovane medico ma nel corso di una lunga e brillante carriera in corsia ha fatto concorrenza spietata alla misteriosa vecchina che nei paesi della Sardegna accompagnava alla morte i malati terminali. Il professore, ex ordinario di Anestesiologia e Rianimazione all’università di Cagliari e alla Sapienza di Roma, ha fatto molto di più di quelle donne senza volto e senza nome: prima si è «occupato» del padre; dopo alcuni anni è stata la volta della sorella.
Per il metodo antico, raccontato ampiamente dalla tradizione popolare, bastava un martello in legno, quello del professore sassarese (87 anni, in pensione dal 1999) si chiama eutanasia ed è da anni al centro della polemiche. «Io non parlo mai di eutanasia, semmai di dolce morte. Può sfuggire ma sono due pratiche molto diverse. L’eutanasia è un metodo drastico, la dolce morte no e si capisce già dal nome. Qualcuno in passato mi ha chiamato Dottor Morte ma io ho soltanto aiutato le persone a smettere di soffrire inutilmente». La sua è una confessione choc e sul caso ha già deciso di vederci chiaro la Procura della Repubblica di Cagliari.
L’elenco dei pazienti aiutati a morire è davvero molto lungo?
«Facendo l’anestesista ho addormentato migliaia di persone, in un centinaio di casi sono andato oltre. L’ho fatto ogni volta che era necessario, ma non ho un elenco. Non mi sono mai pentito, anche perché erano i pazienti a chiedermi di intervenire. In tutte le situazioni non c’era altra via d’uscita».
Com’è possibile che a chiedere di morire fossero pazienti incoscienti?
«Non sempre un malato arriva in ospedale in stato vegetativo. E in ogni caso è possibile esprimersi anche con gli occhi, con gli stati d’animo. Ci sono tanti modi di farsi comprendere. Tutti si stupiscono di questo metodo, ma il vero problema è che in Italia ancora non si è capito cos’è il dolore. Nessuno lo ha studiato, in pochi sanno quali sono le differenze e cosa lo determina. Col dolore non c’è medicina che tenga».
Ha mai detto ai parenti dei pazienti quello che avrebbe fatto?
«Qualunque decisione è stata presa con il consenso dei parenti, talvolta dopo una loro accorata richiesta. Spesso con un’espressa autorizzazione. La cosa più importante è fare il bene del malato, aiutarlo a morire soffrendo il meno possibile. Spesso i pazienti restano abbandonati a se stessi negli ospedali, sottoposti a terapie inutili, lunghissime e anche molto costose».
Quali sono i metodi per praticare la dolce morte?
«Il più semplice è quello di aumentare la dose degli analgesici. Somministrare una quantità superiore di morfina di certo non è reato, ma può bastare. Altra possibilità è quella di somministrare un farmaco che blocca la respirazione: le benzodiazepine sono le più vendute al mondo».
Da quali malattie erano affetti i pazienti che, come dice lei, ha accompagnato alla morte?
«Quelli con la Sla, la stessa patologia di Piergiorgio Welby, erano sicuramente in numero maggiore. Le terapie a cui questi pazienti sono sottoposti sono la chiara dimostrazione che talvolta non c’è altro rimedio, se non quello di interrompere le sofferenze».
In Italia si attende ancora la legge, ma lei sostiene che sono tanti gli ospedali in cui i pazienti sono accompagnati alla morte.
«Questa è una pratica consolidata in tutta Italia, ma per ragioni di conformismo non se ne parla. Gli unici che alzano la voce sono gli esponenti di frange dell’estremismo cattolico rigido e confuso. Parlo ora perché non ne posso più del silenzio su cose che sappiamo tutti».
Nicola Pinna, La Stampa 9/6/2014