Guido Ruotolo, La Stampa 9/6/2014, 9 giugno 2014
DAGLI ALBANESI FAN DI MIKE BONGIORNO AGLI AFRICANI DEL COLABRODO LIBICO
Un silenzio irreale, un corteo mesto di navi fantasma, di pescherecci e bagnarole aspettava da ore di poter entrare nel porto, per legarsi alle bitte dei traghetti o attraccare al molo «Sant’Apollinare».
Sembravano formicai, le navi. Occhi sbarrati, pieni di stupore. Vecchi, giovani, donne. Anche il vociare era mesto. «Lamerica» decise di riceverli, dopo averli fatti aspettare al largo, verso le 10 del mattino del 7 marzo del 1991.
Erano i primi 27.000 «clandestini» albanesi arrivati sulle coste pugliesi. A Brindisi, per essere esatti. Un mondo sconosciuto implorava di poter uscire dal buco nero di una delle più dure dittature comuniste, quella di Enver Hoxha, che aveva ridotto un Paese e un popolo alla miseria, alla fame. Chi di loro era stato fortunato, e aveva un televisore con la parabola, si era fatto un’idea, anche se molto approssimativa, dell’Italia, attraverso le trasmissioni che si captavano a Tirana, la capitale del Paese delle Aquile. Una, in particolare, aveva fatto sognare gli albanesi: «La ruota della fortuna».
Ecco perché per molti di loro l’Italia rappresentava «Lamerica» (il regista Gianni Amelio firmò un film bellissimo sull’argomento, che titolò appunto «Lamerica»).
Quegli eventi della mattina del 7 marzo 1991 furono l’avvisaglia di uno scossone che avrebbe fatto vivere all’Italia (e all’Europa) una diversa stagione del fenomeno delle migrazioni. Fino allora, diciamolo, i flussi migratori a partire dall’inizio del Novecento avevano riguardato nostri connazionali che cercavano un futuro in America, che emigravano in Svizzera, o andavano a morire nelle miniere di carbone in Belgio. Nella metà del secolo scorso, migliaia di giovani meridionali si trasferirono a Torino, in Lombardia, nel Nord industriale in cerca di un lavoro.
L’affacciarsi di masse di disperati in Europa – un continente che era stato segnato dalle guerre mondiali e dalla sconfitta del nazifascismo, dalla fine dei regimi comunisti nell’Est europeo e del colonialismo – ha cambiato parecchie cose. Come se quel mondo che aveva subito guerre, carestie, epidemie, che si era spogliato delle proprie ricchezze sotto minaccia, che era stato annesso con la forza sotto il dominio del colonialismo, avesse deciso di pretendere con gli interessi quel credito che vantava con noi Occidente.
Venivano in Europa in cerca di lavoro, di futuro. Venivano in Europa per scappare dalla violenza, dalle carestie, dalle guerre, dalle discriminazioni razziali, etniche, religiose.
Le mafie etniche hanno rappresentato una vera emergenza. Da un certo punto di vista attuale anche oggi: un terzo della popolazione carceraria è composta da detenuti extracomunitari.
Droga, prostituzione, rapine, i «settori» di albanesi, romeni, nigeriani. E poi la mafia cinese, e la manovalanza tunisina, egiziana. E rapporti tra mafie straniere e indigene sono documentati. Come per esempio i clan della prostituzione nigeriana sul litorale domiziano dovevano pagare una percentuale alla camorra locale.
Un fenomeno, la criminalità straniera che ha fatto salire la febbre dell’insicurezza sociale, dell’intolleranza razziale. Lo si è visto soprattutto al Nord: l’insofferenza e la paura degli extracomunitari ha provocato l’esplosione di movimenti politici al limite dell’intolleranza razziale, come la Lega Nord (in Francia, con il Fronte Nazionale di Le Pen).
Ma una buona informazione, la visibilità di quelle fasce di popolazione straniera che hanno saputo integrarsi, che hanno messo radici hanno fatto evaporare le tensioni, facendo maturare la consapevolezza che gli «stranieri» sono anche una risorsa, un’opportunità. Oggi, semmai, le tensioni che pure ci sono, nascono dalla crisi economica, dalla fame di lavoro, dalla disoccupazione e inoccupazione italiana, dalla disperazione delle nuove generazioni.
Dopo gli albanesi sono arrivati i curdi che volevano raggiungere la Germania e i Paesi scandinavi, i maghrebini (dagli egiziani ai tunisini e algerini). E negli ultimi anni i testimoni e le vittime di guerre etniche e religiose terribili, come i disperati del Corno d’Africa, della fascia subsahariana, i siriani.
Non sono (ancora) esodi biblici come furono gli sbarchi albanesi. Un picco alto l’abbiamo registrato nel 2011, con oltre 60.000 «figli» della Rivoluzione araba. Prima l’Egitto, poi la Tunisia. La Libia no, anche con la caduta di Gheddafi i libici non sono fuggiti dalla loro terra.
Sessantamila e passa arrivarono tre anni fa. E fu dichiarata l’emergenza nazionale. Nel 2012 solo «13.267», e l’anno successivo quasi 43.000. Adesso, con i dati del primo semestre dell’anno in corso abbiamo superato gli sbarchi del 2013. Se non dovessero cambiare le variabili, e cioè se non dovesse stabilizzarsi la Libia, si può anche ipotizzare che l’anno in corso potrebbe chiudersi con 80-100.000 extracomunitari sbarcati sulle nostre coste.
Ma chi è quel genio che può vantare la primogenitura nel definire «clandestini» quei poveri disgraziati che a rischio di morire annegati, e tanti sono stati gli sfortunati che sono morti attraversando il Mediterraneo, cercavano un punto di approdo in Italia?
Clandestino dà l’idea di uno che si nasconde, che cerca di fregarti da dietro le spalle. Chi arriva sulle carrette del mare, su navi fantasma, su pescherecci malandati, gommoni i cui tubolari sgonfi rischiano di imbarcare acqua, non ha mai pensato di sfidare la sorte facendo perdere le proprie tracce.
Noi guardiamo a Sud, scrutiamo l’orizzonte in direzione Lampedusa. Pattugliamo il Mediterraneo per salvare vite umane. Ma tutto questo, i 50.000 disperati arrivati in questi primi sei mesi dell’anno, e tutti quelli del passato, sono solo una fetta della torta dell’immigrazione. Gli «overstayers» sono tutto il resto. Stiamo parlando di quei cittadini magari dell’Est che arrivano per la beatificazione di papa Wojtyla con un visto turistico che scade. E dunque diventano degli irregolari che si inabissano, scompaiono, si trasformano in clandestini. Magari per lavorare come badanti o raccoglitori di pomodori. Ma questa è un’altra storia.
Guido Ruotolo, La Stampa 9/6/2014