Ettore Livini, Affari&Finanza – la Repubblica 9/6/2014, 9 giugno 2014
ILVA, PATTO AL RIBASSO SUL DOPO BONDI IL GOVERNO SCEGLIE LA LINEA FEDERACCIAI
La partita per il salvataggio dell’Ilva arriva ai supplementari e riparte da zero. Il Governo ha dato il benservito al Commissario Enrico Bondi. Reo di aver presentato un piano industriale che non piaceva ai Riva e ai vertici della siderurgia tricolore. E il cerino di Taranto è passato dalle mani del manager aretino a quelle di Piero Gnudi, ex presidente dell’Enel e uomo di fiducia del ministro allo sviluppo economico Federica Guidi (è stato presidente del collegio sindacale di Ducati Energia, l’azienda di famiglia). Il suo compito è titanico: la società è «sull’orlo dell’insolvenza», come dice tranchant il numero uno di Federacciai Antonio Gozzi. I pagamenti ai fornitori sono in ritardo da mesi e tra gennaio e aprile le perdite sono state vicine ai 130 milioni di euro. Il tempo a disposizione è pochissimo. E l’agenda di Gnudi è in salita: c’è da disegnare un nuovo piano di salvataggio, cercare i soldi (tra i 3 e i 4 miliardi) e i soci per finanziarlo e valutare se sarà necessario passare dall’amministrazione straordinaria alla Legge Marzano, con buona pace delle banche creditrici e della famiglia Riva. Alla finestra restano il governo – preoccupato per i 18mila posti di lavoro (12mila diretti e 6mila indiretti) a rischio e per le bonifiche del sito produttivo – e i potenziali investitori interessati a scendere in campo. Il colosso franco-indiano Arcelor Mittal, in primis, a fianco – a tutela di un briciolo di italianità – dei gruppi Arvedi e Marcegaglia nel ruolo delle comparse visto che entrambe le aziende sono a corto di quattrini e in discussione con le banche per ristrutturare i loro debiti. Il benservito a Bondi Lo sbarco in Puglia di Gnudi chiude il lungo braccio di ferro combattuto nei mesi scorsi tra Enrico Bondi (appoggiato da buona parte dei sindacati) e l’estabilishment dell’acciaio tricolore, Riva in primis. Una partita dove un ruolo decisivo, alla fine, l’ha avuto l’arbitro, leggi il Governo Renzi. Bondi, come tradizione, non rilascia dichiarazioni. Il suo lavoro e il suo piano industriale, dicono i collaboratori, parla per lui. «L’azienda aveva chiuso il 2012, anno gestito dai Riva, con una perdita di 1,3 miliardi», scrive la relazione presentata dal manager toscano al sottosegretario alla presidenza del Consiglio Graziano Del Rio nei giorni scorsi. Per il 2014, dopo un 2013 non significativo per le partite straordinarie, la stima è «una perdita di 540 milioni grazie al miglioramento dell’utile operativo che si registra ogni mese da inizio anno». Il 98% degli interventi previsti dall’Aia – continua la relazione – è stato avviato e Bondi, forte di questi risultati ha messo a punto un piano industriale da 4,2 miliardi – 2,4 per le bonifiche, il resto per il rilancio industriale – centrato sull’utilizzo della tecnologia del preridotto di ferro (un trattamento che abbatte drasticamente le emissioni) al posto dell’agglomerato di minerali e delle cokerie. La prima doccia fredda per il Commissario è arrivata dalle banche creditrici. Cui il manager toscano ha chiesto a fine anno un prestito ponte per garantire l’operatività. Gli incontri (il primo è stato l’8 gennaio) non hanno portato a nulla. Gli istituti – molti già tartassati dalle cause di Bondi nell’era Parmalat – hanno fatto capire che non avrebbero aperto i cordoni della Borsa senza un impegno di soci vecchi o nuovi. Fino a che il Banco Popolare, pochi giorni fa, ha inviato una lettera chiedendo il rientro di 25 milioni. Alla freddezza delle banche (e del nuovo esecutivo) si sono aggiunti negli ultimi giorni gli affondi dei Riva. Che dopo un primo prudente via libera al piano («merita un approfondimento »), hanno sparato a palle incatenate: «Sa quando ho sentito per la prima volta parlare del preridotto? Nel 1973. Se in 40 anni ha avuto poca diffusione ci sarà una ragione », ha detto in un’intervista a “Il Sole 24 Ore” Claudio Riva. A dargli man forte è sceso in campo Gozzi. «Il preridotto non sta in piedi economicamente - liquida la questione il numero uno di Federacciai – La gestione commissariale ha fatto perdere tempo sul salvataggio dell’azienda, bruciando 1,5 miliardi di circolante. Il piano è frutto di direttive ambientali figlie dell’Aia difficili da attuare. Un errore del Governo Letta. Il nuovo esecutivo è più pragmatico». L’arrivo di Gnudi Il governo, in effetti, sembra aver dato ragione alle loro tesi. Ha ringraziato Bondi per il lavoro svolto. Ha lasciato scadere il suo piano al termine di «una partita opaca» dove i concorrenti dell’Ilva «hanno giocato contro di lui senza mettere i soldi» per salvare Taranto, ha detto Massimo Mucchetti, presidente della Commissione industria del Senato. E venerdì scorso ha affidato l’Ilva a Piero Gnudi, il “Cuccia di Bologna”, amico da sempre di Guidalberto Guidi, padre del ministro Federica con cui è stato commissario della Fochi. Incaricato, pare evidente, di prestare un orecchio più attento di quello di Bondi alle richieste di Federacciai («il governo deve fare più industria e meno Confindustria », ha attaccato Mucchetti), abbandonando la linea intransigente su ambiente e occupazione del suo predecessore. Il suo è in ogni caso un compito da far tremare i polsi. E ad alto rischio. Il tempo è a poco – visto che già sarà un miracolo mettere assieme gli stipendi di giugno – e servono tanti soldi (se non i 4,2 di Bondi «almeno 2,5-3 miliardi», ammette Gozzi). Chi ha a disposizione queste cifre? Nel nostro paese – pure la seconda potenza europea dell’acciaio – nessuno. Serve dunque un pivot straniero. Arcelor Mittal ha già incontrato i vertici del ministero, disposta a valutare il dossier di Taranto assieme ad Arvedi e Marcegaglia. I coreani di Posco hanno timidamente bussato a Roma e si parla anche di qualche interesse dall’Ucraina. Trovati i soldi, una missione già di suo non facile, sarà necessario trovare un piano che garantisca bonifiche e occupazione. Operazione forse ancor più complessa. «La mia presenza è legata al piano ambientale » ha fatto sapere il vicecommissario Edo Ronchi. Qualcuno teme operazioni “spezzatino” o un calo della guardia della prevenzione sulla questione della salute. «Si profila il rischio di uno spezzatino con l’Ilva di Novi e quella di Genova a disposizione dei privati e Taranto a Mittal che ne ridurrebbe la produzione a 5 milioni di tonnellate tagliando l’occupazione », è l’allarme di Mucchetti. Gozzi, il vero king maker dietro il ribaltone a Taranto, smentisce: «Io quest’ipotesi non l’ho mai sentita e Taranto sopravvive solo con una produzione di 8-9milioni di tonnellate l’anno come oggi», prova a rassicurare tutti il numero uno di Federacciai, aggiungendo però un po’ sibillino che «il problema è la razionalizzazione del comparto italiano dei prodotti piani e dei rivestiti». Il ruolo del Governo Il Governo in questa partita ha avuto e avrà un ruolo che non è certo solo quello del convitato di pietra. E l’impressione è che il siluramento del piano Bondi sia l’anticamera di un nuovo progetto messo a punto da Gnudi più vicino ai desiderata dei privati che potrebbero comprare l’azienda. Quali sono? A spiegarli è Gozzi: Il nuovo piano industriale, sostiene, «dovrà essere fatto rispettando le normative ambientali europee – sostiene per esempio Gozzi – E le cokerie ci sono in tutto il continente». Appello chiaro ad abbassare l’asticella dell’Aia: «Serve una riflessione su Aia e ambientalizzazione». Il rischio, sostiene il combattivo numero uno di Federacciai, è che «nessuno investa qui a condizioni troppo restrittive». In prossimi giorni diranno quanto Gnudi e Renzi sono disposti a concedere su questi fronti, dove come al solito a Taranto le esigenze occupazionali e di continuità aziendale rischiano di scontrarsi con il diritto alla salute. Il rischio è che comunque non ci sia il tempo per mettere assieme una cordata prima della fine dei soldi in cassa. E in quel caso potrebbe scattare l’opzione della Legge Marzano. Ipotesi che dispiacerebbe forse a Riva e banche, che potrebbe creare seri problemi di perdita di posti di lavoro ma che sarebbe gradita ai nuovi soci che si ritroverebbero davanti una newco più leggera e meno indebitata. Si vedrà. Possibile che le banche accettino un taglio alla loro esposizione, come hanno fatto nella partita per Alitalia. La Cdp, ora alla finestra, potrebbe fare un pensierino all’ingresso in cordata. Certezze non ce ne sono. Nemmeno di riuscire davvero a salvare la siderurgia di Taranto. I dipendenti dell’Ilva (e gli abitanti che vivono a fianco dello stabilimento) sperano che i compromessi, alla fine, non vengano fatti sulla loro pelle. A destra, la produzione d’acciaio in Italia dal 2010 ad oggi A sinistra, il numero degli addetti che lavorano all’Ilva, divisi per singoli stabilimenti Un altoforno dell’Ilva di Taranto Lo sbarco in Puglia di Gnudi chiude il lungo braccio di ferro combattuto nei mesi scorsi tra Enrico Bondi, appoggiato da buona parte dei sindacati, e i big dell’acciaio tricolore, Riva in primis.
Ettore Livini, Affari&Finanza – la Repubblica 9/6/2014