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 2014  giugno 09 Lunedì calendario

LA FELICITÀ PERFETTA DI FABIO GROSSO EROE IMPROBABILE A TEMPO SCADUTO


Fabio era un ragazzone moro, pieno di riccioli, la pelle olivastra: aveva quasi trent’anni, e a quell’età un atleta è stato o non è stato. Ma lui diventò Fabio Grosso nell’immenso, ridottissimo spazio di quattordici giorni, non contava il prima, non sarebbe contato il dopo. Ci sono passaggi di destino rapidi e lucenti come un falò.
«Non guardai la porta, la immaginai soltanto. Per fortuna, la immaginai nel posto giusto».
Due settimane: dal 26 giugno 2006 (Italia-Australia, ottavi di finale, rigore procurato da Grosso al 93’) al 9 luglio (finalissima contro la Francia, ultimo rigore segnato da Grosso), passando soprattutto dal 4 luglio (semifinale contro la Germania, primo gol nei supplementari segnato da Grosso al 119’). Tre gesti estremi, a tempo scaduto e non è un caso, perché Fabio Grosso fu proprio questo: un evento, un’apparizione oltre il tempo regolare.
«Italia-Germania è una di quelle partite che sogni da bambino, però io credo che non la sognai: era troppo, per me, anche da piccolo».
Fabio portava sulla schiena il numero 3: l’etichetta che in passato si applicava ai barattoli dei terzini sinistri. Correva molto. Diventò titolare alla terza gara. Contro gli australiani incespicò nell’avversario in area, l’arbitro fu molto generoso, poi Totti segnò con un colpo secco, la tavola apparecchiata in quel pomeriggio di sole sfolgorante non prevedeva cucchiai. Molto più facile battere l’Ucraina nei quarti, talmente facile che non occorse l’estremo Grosso, contro i tedeschi invece sì.
«Eravamo così sereni, la sera prima in albergo: tutti. Penso che cominciammo a battere la Germania in quel momento».
Zero a zero al novantesimo, zero a zero a un minuto dalla fine dei supplementari. C’è un corner, lo batte Del Piero in area, un tedesco rinvia, il pallone adesso è di Pirlo.
«Ero libero in area sulla destra, e sperai tanto che quella palla mi arrivasse. Quando Andrea non ti guarda, ecco, è il momento in cui sta per servirti. E lui non mi stava guardando».
Pirlo passa infatti il pallone a Grosso con un tocco d’interno, quasi un colpo di tacco. Fabio è in posizione perfetta, bilancia il corpo e lascia partire un tiro a giro d’interno sinistro, laggiù, dentro la porta solo immaginata. Poi comincia a correre scuotendo il capo, quasi come Tardelli ventiquattro anni prima. Fa segno di no col dito.
«Perché non ci credevo. Perché non era possibile che tutto questo stesse accadendo proprio a me».
Ci sarà tempo per il raddoppio pizzicato di Del Piero al 120’, ormai aperta la strada verso Berlino, verso il rigore di Zidane, verso il pareggio di testa di Materazzi, verso la testata di Zidane a Materazzi, verso l’ultima serie dei rigori.
«Incoscienti, ecco cos’eravamo. Incoscienti».
Trezeguet, traversa. Pirlo, gol. Materazzi, gol. De Rossi, gol. Del Piero, gol.
«Poco prima, Lippi mi aveva detto che l’ultimo rigore l’avrei calciato io. Gli avevo risposto: ma è sicuro, mister?» Fabio va sul dischetto come passeggiando il sabato pomeriggio in centro, le borse dello shopping in una mano, un bel gelato nell’altra. Calcia forte, preciso. E ricomincia a correre.
«Tante volte ho raccontato quei giorni senza riuscirci. Cerco le parole, e nessuna spiega niente. Allora dico: guardateci in faccia e forse capirete cos’è la felicità perfetta».
Si è fermato presto, ma cosa importa? Era del Palermo, quella notte, e ci fece vincere il mondiale da rosanero. Poi l’Inter, il Lione, la Juve, gli esatti confini del suo destino ormai tracciati, e da nessun destino si torna indietro. Oggi lo potete incontrare a Torino, un po’ ingrassato, sempre con gli occhiali da sole sul viso. Allena la Primavera della Juventus: è Fabio Grosso dopo essere stato Fabio Grosso.

Maurizio Crosetti, la Repubblica 9/6/2014