Enzo Biagi, Il Fatto Quotidiano 8/6/2014, 8 giugno 2014
LA GRANDE GUERRA “COSÌ L’ITALIA DIVENTÒ FASCISTA”
[Intervista a Giuseppe Prezzolini] –
Caro Prezzolini che cos’è un conservatore?
È un freno alla illusione umana. C’è chi pensa che tutto quello che è nuovo sarà migliore. Non è uno che vuole tornare indietro, ma intende mantenere quello che è stato provato per molto tempo, mentre ciò che si propone non tiene mai conto degli ostacoli e del disinganno che nascono da qualunque rapido trapasso.
E la rivoluzione che cos’è?
Sempre un miraggio: può trasformare in parte un paese, talvolta ne accentua i difetti, può produrre qualcosa che non è mai quello che si era sperato. Il 1789, la Rivoluzione francese, ha creato niente di meno Napoleone, e nacque col presupposto che le guerre erano fatte dai principi per scopi personali, e c’era del vero, e scoppiarono poi conflitti molto più estesi, il servizio militare diventò obbligatorio, e le masse vennero coinvolte.
E il 1917?
Ha avvilito quelli che speravano in un mutamento profondo della Russia in senso democratico, ha dato un benessere diffuso, non eccezionale, ma notevole per il passato di quel popolo. Ma l’Urss non è né il modello di Marx né un esempio per gli altri.
All’inizio del Novecento avevi diciotto anni, com’era la vita allora?
A me pareva sbagliata. Quando ero ragazzo mi dichiaravo anarchico, volevo anzi andare a Ginevra dove c’era il covo. Figlio di un Prefetto del Regno, per reazione mi sentivo libertario. Nella nostra casa non mancava nulla. Durante l’inaugurazione della galleria del Sempione mio padre aveva citato un verso del Petrarca contro i tedeschi e questo non era permesso perché dal 1882 facevamo parte, con Germania e Austria, della Triplice Alleanza. Il verso diceva: ‘Ecco queste Alpi che ci hanno difeso dalla tedesca rabbia’. Un senatore cattolico lo riferì a Giolitti che gli tolse il posto a sei mesi dalla pensione. Per fortuna che era stato volontario nel ’59, durante la Seconda guerra d’Indipendenza, questo gli consentì di salvare la pensione, così ritornammo a Firenze.
Com’era la vita letteraria a Firenze?
Eravamo giovani; io insegnavo il latino a Giovanni Papini, che era figlio di un garibaldino, lui ricambiava spiegandomi lo spagnolo. Ci separammo da Ercole Luigi Morselli, il commediografo, perché era per la letteratura, noi per la filosofia. ‘È il pensiero che conta’, sostenevamo noi. ‘No è l’arte’, rispondeva l’autore di Glauco. Nel 2008 fondammo la rivista culturale La Voce, dopo che avevamo fatto l’esperienza del Leonardo che chiudemmo nel 1907. Allora tutto era dominato da D’Annunzio e dalla rivista letteraria Il Marzocco. D’Annunzio non l’ho mai voluto incontrare, non mi piaceva. Era l’emblema della vita senza pensiero, godereccia, del piacere. Noi, da idealisti, sostenevamo che il mondo esterno non esisteva.
Com’era Papini allora? Come vivevate?
Tante volte mi pareva un angelo, altre un demonio. La sua famiglia era dell’aristocrazia artigiana. Quando, prima della macchina, contava l’abilità delle mani, facevano mobili poi diventarono mercanti. Giovanni era maestro elementare, dal reddito del negozio gli passavano 30 lire al mese. Ogni tanto riceveva una lettera che gli offriva un posto da insegnante, ma lui la buttava via.
È vero che hai giocato a carte con Carducci?
Carducci era amico di mio padre, erano stati studenti agli Scaloppi di Firenze, gente seria: il babbo sapeva Virgilio a mente. Tutte le volte che cambiava prefettura, Carducci gli veniva a far visita. Ho giocato una partita con lui e, purtroppo, ho perso.
E De Amicis?
Venne a Novara, ma era sotto sorveglianza della polizia perché noto come socialista. Una mattina, tornando dalle lezioni, incontrai un signore che mi chiese della prefettura: era De Amicis. Era alto, con grandi occhi, baffi bianchi e sopracciglia grosse scure, ben vestito, una cravattina a farfalla, e un colletto con il bavero di velluto. Mi ricordo che portava un bel cappello a cencio. Gli dissi che anch’io ci andavo, salimmo insieme le scale, veniva a far visita al prefetto, sicuramente non parlarono di politica perché mio padre era un liberale conservatore. Ricordo che disse al delegato di polizia di sospendere la sorveglianza: ‘Rispondo io per De Amicis’.
Come giudichi Giolitti come capo di governo?
Giolitti aveva capito che bisognava aprire la strada alla classe lavoratrice, attraendola come aveva fatto coi cattolici, ma non aveva abbastanza forza. Si è allontanato dal governo ogni volta che c’era una questione grave, lasciava nominare qualcuno di fiducia, poi ritornava. La guerra del ’15 fu dovuta anche all’incarico dato a quella nullità che era Antonio Salandra, che pur essendo un conservatore era protetto da Giolitti che aveva la maggioranza in Parlamento. Fu un grave errore di Giolitti perché non riuscì a imporgli la neutralità, Salandra con il suo ministro degli Esteri Sonnino appoggiarono la Triplice Alleanza e l’Italia entrò in guerra nel secondo anno dallo scoppio. Ebbi un colloquio con Giolitti; La Voce era aperta a tutte le tendenze. Sull’occupazione di Fiume mi disse: ‘Fu una semplice operazione di polizia’.
Hai scritto che il tempo più bello vissuto dal nostro paese, nonostante tutto, è quello del Primo conflitto mondiale.
Sì, dopo la disfatta di Caporetto si scatenò la reazione delle truppe. Con tutti i suoi orrori. La guerra esaspera le facoltà umane: si vede il pauroso diventare vigliacco e il coraggioso eroe.
Tu sei partito volontario nella Prima guerra mondiale, perché?
Erano diverse le ragioni per le quali in molti eravamo a favore della guerra. A La Voce pensavamo che fosse l’unica occasione che l’Italia avrebbe avuto per riavere Trieste e Fiume. Quelle terre erano nostre. Lavoravo in un ufficio militare, controllavo delle scartoffie, dopo la disfatta di Caporetto feci domanda per essere mandato al fronte. Accettai l’invito di entrare nel corpo d’armata A, che stava per assalto, che era composto tutto di arditi. L’esercito aveva scelto, per sfondare il fronte austriaco a Vittorio Veneto, i gruppi che aveva preparato per ciascun corpo d’armata, gli aveva messi tutti insieme formando un unico nucleo. Prima di partire scrissi a Papini una lettera nella quale gli raccontavo che mi vergognavo di stare a riposo mentre gli altri si battevano anche per me e che avevo deciso di fare la mia parte, di dare il mio contributo. Combattemmo sul Monte Grappa e sul Piave.
Cosa ricordi della Grande Guerra?
Molte cose dolorose e penose: la morte degli amici. Nel battaglione trovai il poeta Giosuè Borsi, anche lui volontario. Era simpatico, raccontava storielle, morì tradito dal suo capitano. Il vigliacco diceva ai suoi soldati: ‘Se viene un combattimento, io metto la testa sotto un sasso e non mi vedete più’. Una cosa tremenda. Borsi fu tra i primi a essere mandato in combattimento. Morì mentre lanciava una bomba contro il nemico.
Da che cosa è nata Caporetto?
Dalla stanchezza: le truppe erano senza cibo e non avevano informazioni. Il comando non sapeva nulla. Una volta fui mandato a Udine per portare un dispaccio. Lì incontrai Ugo Ojetti, il giornalista, lo scrittore, anche lui volontario , mi accorsi nel parlargli che non sapeva nulla di ciò che stava accadendo.
Come si comportò il soldato italiano?
È stato un buon soldato, non era peggiore degli altri, non li ho visti mai scappare. Il problema erano gli ufficiali non i soldati.
Parlami dei generali Cadorna e Diaz.
Di Cadorna, nel mio Diario, ne ho fatto una discrezione spaventosa. Era un vecchio generale che non credeva nelle innovazioni militari. Per lui gli aeroplani erano dei giocattoli, non credeva nelle mitragliatrici, mandò gli ufficiali del mio reggimento a combattere con la sciabola. Mi ricordo una volta che mi ordinarono di formare un nuovo reparto e che Cadorna lo avrebbe passato in rassegna. Ci tennero sull’attenti per due ore, quando arrivò radunò gli ufficiali ed ebbe il coraggio di rimproverarli perché la musica era stata suonata male e i soldati non avevano marciato bene. Durante l’inverno, alla mattina invece del caffè caldo ci fece dare le castagne secche. A sua difesa dico che nonostante tutto era quello che strategicamente capiva di più. Fu lui a decidere, quando avvenne la catastrofe di Caporetto, che l’unica difesa possibile era il Piave. Diaz, che aveva sostituito Cadorna, non era niente, proprio niente. Il migliore comandante era il generale Caviglia, fu merito suo la vittoria nella battaglia di Vittorio Veneto. Ho visto con i miei occhi le sue capacità militari.
Che cosa vi avevamo promesso?
Tra i volontari e gli ufficiali di complemento c’era l’idea che la guerra avrebbe dovuto portare a un rinnovamento politico, che avremmo potuto, una volta finita, fare un’altra Italia. Questo era un sentimento diffuso. Io ho sempre creduto che la guerra preparò l’arrivo del fascismo.
Benito Mussolini ti scrisse: “Io sono stato fatto e poi rifatto dai periodici, “Leonardo” prima e da “La Voce” poi, e te ne sono riconoscente”. È vero?
È un documento a cui tengo moltissimo perché, senza volerlo, è la conferma di ciò che ho appena detto: il fascismo fu l’unica soluzione nazionale data dalla guerra. Su questo punto pubblicai una lettera di Ferruccio Parri del 1915 nella quale, fin da allora, egli attribuiva a quei giovani il compito di creare un’Italia nuova, e lo previdi perché nel ’14 scrissi che Mussolini sarebbe stato il capo della prima invasione non di barbari, ma di italiani.
Che cosa vuol dire essere di destra o di sinistra?
Rigorosamente parlando, non saprei: conosco individui di destra più rivoluzionari di quelli di sinistra e ne conosco di sinistra più reazionari di quelli di destra.
Nel tuo libro “Dio è un rischio”, concludi: “Non c’è alcuna certezza”. E allora?
Questa è la tragedia moderna, o antica, di coloro che riflettono sui problemi generali, ma per fortuna la maggior parte di noi non è stata castigata da Dio con la capacità di pensare ad altro che al proprio destino. Il pensiero è una disgrazia, non è un merito.
Enzo Biagi, Il Fatto Quotidiano 8/6/2014