Il Fatto Quotidiano 8/6/2014, 8 giugno 2014
PIANETA MONDIALE DI MISERIE E SPLENDORI
[Otto schede] –
Storie che in una frazione di secondo diventano leggenda. Per l’importanza del palcoscenico. Per la notorietà degli attori. Per la vastità della platea. Da quando la televisione ce li ha portati in casa (Inghilterra 1966), i Mondiali di calcio sono diventati il più grande spettacolo dopo il Big Bang. Che il Muro di Berlino sia ancora in piedi oppure no, che Videla sia al potere oppure no, che la Jugoslavia sia ancora insieme oppure si sia disgregata in tanti piccoli pezzi-nazione, non c’è angolo del pianeta che per 30 giorni l’anno ogni 4 anni, succeda quel che succeda, non resti col naso incollato al video preda di una febbre e di una passione “malata”, non debellabili.
E così, attimi fuggenti rubati dall’occhio in mondovisione si cristallizzano, come per miracolo, in leggenda: come la testata di Zidane a Materazzi nella finale Italia-Germania a Berlino 2006. La vedemmo (tutto il mondo la vide) solo in replay. Anche per questo, forse, Zidane divenne all’istante mito. E Materazzi con lui.
Brividi mondiali. Piccole e grandi storie che hanno trasformato questo evento nel Grande Museo delle Emozioni. Il gol-non-gol di Hurst nella finale Inghilterra-Germania del ’66 (nacque la moviola: e il calcio non fu più come prima), il gol di Rivera e il braccio bendato di Beckenbauer in Italia-Germania 4-3 (Mexico ’70), Nelinho che batte il corner e Zico che insacca di testa al 90’ di Brasile-Svezia 1-1, ma inutilmente perché l’arbitro Thomas ha fischiato la fine prima che la palla toccasse la fronte di Zico; o ancora l’uscita assassina di Schumacher a travolgere Battiston in Germania-Francia 3-3 a Spagna ’82 (“Se proprio avrà bisogno – dirà il portiere – gli pagherò il dentista”), la mano de Dios di Maradona in Argentina-Francia 2-0 a Mexico 86 (“Chi ruba a un ladrone, ha 100 anni di perdono”, se la cavò El Pibe), lo sputo di Voeller in faccia a Rijkaard in Germania-Olanda 1-1 a Italia 90; le storie che il Mondiale ci ha regalato in mezzo secolo di calcio in tv sono mille e tutte romantiche e tutte emozionanti. Ve ne raccontiamo alcune.
CILE 1962 IL PEGGIORE –
Un Campionato del mondo a 13 mila km di distanza: pura pazzia. Il Cile è piccolo, povero, fiero. Il telefono non funziona. I taxi sono rari come i mariti fedeli. Un cablogramma per l’Europa costa un occhio della testa”. È l’incipit del primo pezzo del reportage di Antonio Ghirelli, inviato del Corriere della Sera ai Mondiali in Cile del ‘62: reportage che assieme a quello più spietato di Corrado Pizzinelli de La Nazione, provocò le violenti proteste – rimbalzate subito in Cile – dell’ambasciata cilena in Italia. Per l’Italia del ct Giovanni Ferrari, l’inizio della fine.
I Mondiali del ’62, complice anche l’assenza della diretta-tv (le partite venivano filmate e poi teletrasmesse in Europa, in ritardo, da Francoforte), furono i più brutti e violenti della storia sia fuori dal campo (4 morti alla partenza del Cile per la sfida con l’Urss ad Arica) sia in campo, con Cile-Italia 2-0 degna di un film di Tarantino (l’arbitro inglese Aston che caccia Ferrini e David nel primo tempo e assiste impassibile ai pugni in faccia di Sanchez a Maschio e allo stesso David). Stadi quasi sempre vuoti (2.500 spettatori per Ungheria-Inghilterra a Rancagua, 3 mila per Cecoslovacchia-Jugoslavia a Vina del Mar) e botte da orbi sul prato: che non bastano al Cile per far fuori il Brasile in semifinale a dispetto dell’assenza di Pelé e delle sconcezze dell’arbitro Yamasaki, sgherro al soldo dell’organizzazione. Brasile campione, Cile 3°.
SPAGNA 1982, LO SCEICCO ULTRÀ –
In Cile, nel ’62, a invadere il campo fu un cane. Si prese la scena durante Inghilterra-Brasile, irrise Garrincha in dribbling e venne fermato a un passo dalla storia da un atleta britannico di sua maestà e dall’autorità in giacca nera dell’arbitro Greaves, libero dalla sudditanza psicologica del collega russo Stupar, uno che vent’anni più tardi, di fronte allo sceicco Fahad Al-Ahmad Al Sabah, divenne bianco di paura.
Del sonnolento pomeriggio di Valladolid, quello in cui la Francia chiuse comodamente la pratica Kuwait, di Fahad ricordano tutti la discesa in campo. Si era sul 3-1 e Platini lanciò Giresse in campo aperto. I calciatori arabi credettero di aver udito un fischio e si fermarono. Alain segnò il quarto e a quel punto, in piena estasi protestataria, come un qualunque Galliani a Marsiglia, il presidente della Federazione, fratello dell’Emiro, iniziò a sbracciarsi dalle tribune per regalare al pubblico teatro in sovrappiù.
Scese i gradini ed entrò in campo, bloccò la partita, convinse Stupar a recedere dalla convalida e poi, con un codazzo di guardie private, giornalisti impazziti e calciatori/sudditi perplessi, ottenuto l’annullamento, si ritirò in buon ordine. La Fifa non la prese bene e per Stupar, arbitro esposto all’arbitrio del ricco petroliere, il finale di partita fu definitivo. Radiato. Cancellato dalle mappe.
Lo stesso destino che per il Kuwait avrebbe desiderato anche Saddam. Fahad morì durante l’invasione irachena del ’90. La palla non rotolava più da un pezzo e la farsa aveva consegnato la staffetta alla tragedia.
GERMANIA 1974. LA CORSA DI MWEPU –
Immaginate un pugile che nell’intervallo tra un round e l’altro si alza, va all’altro angolo e sferra un pugno al rivale; o un nuotatore che a metà dei 100 rana si mette a fare stile libero lasciandosi alle spalle tutti. Difficile non mettersi a ridere. Com’è difficile non mettersi a ridere quando al Parkstadion di Gelsenkirchen, il 22 giugno 1974, nell’ultimo match del Gruppo 2 tra Brasile e Zaire succede questo.
A pochi minuti dalla fine, col Brasile avanti 3-0 (Jairzinho, Rivelino, Valdemiro), l’arbitro Rainea fischia una punizione contro gli africani. Barriera a 5, l’arbitro ricorda ai Leopards di non muoversi, Rivelino è sul pallone pronto per rincorsa e tiro: quand’ecco che al fischio di Rainea dalla barriera parte di gran carriera un uomo in maglia verde, il numero 2 Mwepu, che si lancia sul pallone e bum!, gran destro e palla catapultata 70 metri più in là, dalle parti di Leao. Mwepu si prende il giallo ed entra di diritto nei Miti del Pianeta Pallone: dal giorno in cui il calcio fu inventato, mai visto nulla di simile! Solo anni dopo si saprà che non c’era, invece, niente da ridere. I Leopards, reduci da uno 0-9 contro la Jugoslavia, erano stati minacciati dagli uomini del dittatore Mobutu: in caso di sconfitta con più di 3 gol di scarto, nessuno avrebbe potuto fare ritorno nelle proprie case nello Zaire. Perdere 4-0 sarebbe stata la fine. Mwepu, eroico, s’immolò.
ARGENTINA 1978. LA MARMELADA DI QUIROGA –
Lui si chiama Ramòn Quiroga, ha 28 anni e anche se i suoi natali sono argentini (Rosario, 23 luglio 1950) è il portiere del Perù, di cui ha preso la cittadinanza da poco, dopo il passaggio dal Rosario allo Sporting Cristal, club di Lima. Siamo ai Mondiali del 1978 in Argentina: e il fatto che un ex argentino, la sera del 21 giugno, difenda la porta del Perù dagli assalti della Nazionale di Menotti a Rosario, dove Ramòn si è affermato, è motivo di grande imbarazzo. Il Brasile, che nel pomeriggio ha battuto la Polonia 3-1, ha chiuso il girone con una differenza reti di +5 (6 gol fatti, 1 subìto); se l’Argentina, che parte da +2 (2 gol fatti, 0 subiti), vuole strappare il lasciapassare per la finale, deve battere il Perù con 4 gol di scarto.
Il biscotto (o marmelada, come dicono qui per alludere al tarocco) è nell’aria: alzi la mano chi vorrebbe essere nei panni del povero Ramòn, che infatti va incontro al suo Calvario. Non solo l’Argentina in un tempo e spiccioli gli rifila 4 gol (Kempes 21’, Tarantini 43’, Kempes 49’, Luque 50’), ma tra gli olé del popolo infierisce e maramaldeggia infilzando Quiroga ancora e ancora (Houseman 67’, Luque 72’) per un 6-0 già infiocchettato per la leggenda. “Io ho fatto il massimo. Guardate i miei compagni; e il guardalinee Gonella, che convalidò due gol in fuorigioco e venne ricompensato con la finale”, piange ancora oggi Quiroga. L’uomo della marmelada.
Paolo Ziliani, Il Fatto Quotidiano 8/6/2014
MESSICO 1986. GALLI, BATTUTO DALLO SGUARDO –
Con i portieri azzurri non era sempre cinema a colori, ma a volte, con quella maglia ingrata sulle spalle, il destino della patria mutava in peso insopportabile e il Mondiale diventava irrisione generalizzata e graffio fantozziano: “Si diceva che l’Italia stava vincendo per venti a zero e che avesse segnato anche Zoff, di testa, su calcio d’angolo”.
Se la mancanza di alternative, l’ostinazione di Bearzot e la magia dell’82 avevano donato proprio a Zoff una rivincita tardiva sulle tenebre di Germania ’74 e sulla condanna – netta e trasversale – piovuta dopo le strane traiettorie di Argentina 78 (parabole da 40 metri che eliminarono la truppa del vècio e per Dino suonarono un prematuro epitaffio: “Non ci vede più”, “È finito”, “È meglio Castellini”), la successione del Moloch fu lenta e dolorosa.
C’era Bordon, ma l’elegante Ivano si autoeliminò in fretta. Sarebbe potuto toccare a Zenga, ma la chiamata di Bearzot per un’amichevole, e la distrazione sentimentale del portiere che al telefono non rispose, non deposero a favore della rivoluzione.
Così Copernico si dette una calmata e il duello fu tra Galli e Tancredi. In campo andò il primo. Il resto lo fece Maradona. Un tocco lento. Un colpo di biliardo. Galli la accompagnò in rete con lo sguardo basso e la mimica dello sconfitto. L’Italia aveva pareggiato. Lui aveva perso da solo. Questione di ruolo. E di mestieri infami.
ROGER MILLA L’EXTRATERRESTRE –
Che età avesse davvero non lo sapeva nessuno. La carta d’identità di Roger Milla diceva maggio 1952, ma mito e mitomania, nelle pieghe della leggenda, si confondevano.
Qualcuno giurava fosse nato alla fine degli Anni Quaranta, ma Roger e la sua biografia erano documenti misteriosi in cui a ogni ricostruzione, come in un gioco per bambini, si potevano aggiungere o sottrarre verità e menzogna.
Indolente nei trascorsi seventies in Ligue 1, la serie A francese, con il sorriso più largo della realtà, Milla era partito presto e arrivato tardissimo. In maglia verde, con la Nazionale del Camerun, era planato a 26 anni, nel 1978, 24 mesi dopo aver conquistato il Pallone d’Oro africano e 4 anni prima del suo Mondiale d’esordio, quello del 1982, a 30 anni. Un’eliminazione senza mai conoscere sconfitta e uno strano pareggio con l’Italia su cui molto si sussurrò e troppo poco, dopo l’inchiesta di Chiodi e Beha silenziata dal trionfo di Madrid, si potè liberamente raccontare. Milla si ritirò a fine Anni Ottanta a dare calci in un possedimento francese d’oltremare.
Poi ci ripensò e piegandosi alle pressioni della Federazione camerunense non meno che alla nostalgia, a 38 anni, nella cornice di Italia 90, si rimise a correre e diede lezioni di eterna giovinezza spaventando gli inglesi e danzando intorno alla bandierina come Juary ad Avellino.
A 42 anni, a Usa 94, c’era ancora. Fece gol anche lì, ma superata l’incredulità, anche i miracoli avevano iniziato a fare un effetto relativo.
LA FINALE DEL 90. L’URLO DI DIEGO AGLI 80 MILA –
Lo ripete due, forse tre volte. “Hijos de puta”. Lo grida, Diego, mentre uno stadio Olimpico senza spirito a cinque cerchi mette la sua Argentina nel recinto del disprezzo. Fischi fortissimi. Fischi di ripudio. Fischi inauditi che coprono musica e parole dell’inno nazionale: “Siano eterni gli allori che riuscimmo a conquistare”. L’otto luglio del 1990, a Roma, Maradona e i suoi non vinsero nulla e a ben vedere, in controluce, persero in tanti. Davanti alla giacca marrone di Helmut Kohl, a Cossiga e ai generali sudamericani in bianco, la Germania scoprì inaspettatamente di giocare in casa e alzò la Coppa del mondo prima ancora che fosse dato il fischio d’inizio. C’erano i cosiddetti precedenti.
Le scorie della semifinale persa pochi giorni prima dall’Italia di Vicini. L’astio per le notti magiche interrotte dalla testa di Caniggia in volo sull’unico errore di Walter Zenga. L’avversione per le maglie blu degli italiani d’Argentina che avevano sostituito – quando tutto indicava il contrario – l’azzurro tinto da Schillaci. Invece era andata diversamente e davanti agli occhi increduli dei Dezotti, dei Troglio e dei Sensini, dei compagni di squadra che si erano già fatti conoscere o avrebbero fatto parlare di sé nelle arene di casa nostra, Maradona si ribellò. A petto in fuori. Da capitano nervoso, impotente, indignato. “Figli di puttana”. Così muore un argentino. Senza chiedere scusa, perché quando è giusto, urlare è necessario.
M. Pa. , Il Fatto Quotidiano 8/6/2014