Marcello Sorgi, La Stampa 8/6/2014, 8 giugno 2014
I MISTERI DI CUCCIA IL BANCHIERE CHE TENNE TESTA ALLA MAFIA
La storia di Enrico Cuccia, storico fondatore e per più di mezzo secolo patron di Mediobanca, ancor prima della sua scomparsa, avvenuta a novantadue anni, il 23 giugno 2000, era entrata nel mito. A rafforzarlo, ora, arriva questa biografia (Enrico Cuccia e il segreto di Mediobanca, Feltrinelli, pag 312, €17) di Giorgio La Malfa. Come figlio di Ugo, e come stretto collaboratore del banchiere in anni giovanili, prima di seguire le orme del padre alla guida del Partito repubblicano, La Malfa aveva avuto con lui un’affettuosa e assidua frequentazione, che gli ha consentito di rileggerne la vicenda da un punto di vista economico e politico.
Cercando di spiegare grazie a cosa - qualità personali, competenze, convinzioni, cultura, oltre a una testardaggine assoluta - Cuccia riuscì a diventare Cuccia, cioè l’avversario temibile e temuto di un sistema politico e di governo che tendeva a occupare tutto con le proprie clientele, anche a discapito dell’economia del Paese; e «il padrone dei padroni», come fu definito, a causa della tutela che gli toccò esercitare sull’intero sistema capitalistico e imprenditoriale italiano, dall’Olivetti alla Pirelli, alla Fiat, dalle Generali alla Montedison, a grandi case editrici come Mondadori e Rizzoli, alle maggiori banche pubbliche, a cui formalmente avrebbe dovuto essere sottomesso, ma che in realtà governava a suo piacimento, cosa che gli procurò due epici scontri con Romano Prodi, allora presidente dell’Iri.
Non si capirebbe fino in fondo il personaggio senza la meticolosa ricostruzione che l’autore fa delle origini siciliane di Cuccia, nato a Roma nel 1907 da una famiglia originaria di Mezzojuso, vicino a Piana degli Albanesi, paese di tradizioni e religione ortodosse, vicino Palermo, e nipote di Simone Cuccia, deputato del Regno dal 1882 al 1894. La personalità e il carattere ereditati dal nonno, che era stato educato in un seminario greco e ai suoi figli raccomandava sempre di leggere («I libri fanno i labbri», cioè insegnano alla bocca a parlare, era il suo motto), hanno modo di manifestarsi quando Cuccia, non ancora trentenne, nel 1936 viene inviato in Africa ad Addis Abeba, passando dall’Iri alle dipendenze del sottosegretariato per gli Scambi e le Valute.
Nel corso della missione entrerà in conflitto con il maresciallo Rodolfo Graziani, che come vicerè d’Etiopia riteneva di poter disporre senza limiti, approfittandone a dismisura, dei fondi italiani, e mal tollerando le regole che il giovane funzionario intendeva imporgli, ne chiese subito il rimpatrio. Cuccia invece riuscirà ad ottenere piena ragione dal Duce in persona, che il 2 luglio ’37 lo riceverà lodandone pubblicamente il rigore: «Se tutti i funzionari fossero come lei, l’Italia sarebbe salva!».
Sarebbe stata quell’esperienza di contatto diretto con la corruttela del regime a orientare le scelte politiche del futuro banchiere in senso antifascista e azionista, grazie anche all’amicizia con Ugo La Malfa e Adolfo Tino (prossimo presidente di Mediobanca) che lo porteranno anche a svolgere nel ’42, a regime ormai morente, una pericolosa missione cospiratoria in Portogallo, per entrare in contatto con la rappresentanza diplomatica americana e far giungere al conte Sforza, esule negli Stati Uniti, una documentazione sul raffreddamento della casa reale nei confronti del fascismo.
Mediobanca nasce nel ’46 e rappresenta subito il tentativo di liberare il sistema bancario, traballante e sorretto ancora in gran parte dall’Iri, dall’onere del finanziamento alle imprese e del necessario contributo alla ricostruzione e allo sviluppo di un paese distrutto dalla guerra. Sebbene sottoposto al controllo delle tre maggiori banche pubbliche di interesse nazionale (Bin), la Comit, il Credito italiano e il Banco di Roma, l’istituto di via Filodrammatici acquista subito un’autonomia e una libertà di manovra che consentirà a Cuccia di renderlo protagonista delle maggiori operazioni industriali e finanziarie degli anni Sessanta-Settanta: il riassetto dell’Olivetti, la fusione tra Montecatini e Edison, la scalata (evitata per l’opposizione di Cuccia) dell’Eni di Cefis alla neonata Montedison, l’entrata dei libici nella Fiat, e poi, in anni più recenti, la privatizzazione della Montedison e il riassetto della Ferruzzi.
A parte il rapporto personale con Gianni Agnelli (è uno dei suoi interlocutori privilegiati, con la Banca d’Italia, André Meyer di Lazard che considerava il più importante banchiere del tempo, l’Iri di Petrilli, la Comit di Mattioli), Cuccia non aveva una grande opinione di tutti gli imprenditori italiani, «capitalisti senza capitale» soleva definirli, e non considerava suo stretto dovere sostenerli senza una chiara prospettiva di business: il suo motto era «meglio verdi di rabbia per un affare non fatto, che rossi di vergogna per un affare che non si doveva fare». Era però convinto che nell’Italia in cui il controllo del governo sull’economia era cresciuto dopo la guerra, la parte privata del tessuto imprenditoriale andasse salvata e protetta dai tentativi di invasione e di lottizzazione della politica. Sarà questo l’obiettivo di tutta una vita spesa al servizio di Mediobanca: e incredibile il fatto che sia riuscito a realizzarlo manovrando uno strumento quasi interamente pubblico.
Allo stesso modo Cuccia interverrà quando a minacciare gli equilibri del sistema sarà la singolare alleanza tra il banchiere siculo americano Michele Sindona e la Dc di Andreotti e Fanfani. Sindona vuol dare a bere ai suoi amici americani che con quattro soldi è facile impadronirsi di importanti assets di imprese in Italia, e agli italiani di essere il capofila di capitali e interessi Usa determinati a radicarsi nel nostro Paese. Finisce, prima male, con la magistratura americana e quella italiana che lo braccano, e poi malissimo, con Sindona «suicidato» nel carcere di Lodi. Ma in mezzo ci sono la durissima azione di contrasto che Cuccia, incurante delle pressioni democristiane, fa ai piani sindoniani, e le minacce esplicitamente mafiose, rivolte contro i suoi figli, che ne riceve come risposta. Al punto che il 10 e l’11 aprile 1979 Cuccia è costretto a incontrare Sindona a New York due volte, una delle due faccia a faccia senza testimoni, e a spiegargli perché Mediobanca non può aiutarlo.
L’incontro tra questi due banchieri così diversi segna una delle pagine più drammatiche del libro e avviene in un clima da tragedia greca: mafiosamente, Sindona alterna lusinghe e minacce; sicilianamente, Cuccia lo guarda gelido negli occhi con uno sprezzo del pericolo inaudito per un uomo dal fisico così esile e dall’apparenza altrettanto fragile.
Il libro di La Malfa fa giustizia anche di un particolare che per anni ha allungato un’ombra su Cuccia: l’avvertimento, che Sindona gli fece, e che Cuccia non comunicò all’interessato, della condanna a morte operata dalla mafia per l’avvocato Giorgio Ambrosoli, liquidatore, assassinato poco dopo, della fallita Banca Privata che il finanziere protetto dalla Dc voleva salvare. In tribunale, Cuccia dichiarò di aver preferito il silenzio per non dare importanza al latore delle minacce. In Parlamento, davanti alla commissione d’inchiesta, che gli chiedeva perché avesse taciuto, fu più esplicito: «Sarei già morto». In realtà Cuccia aveva fatto avvertire informalmente dal suo avvocato i magistrati che indagavano su Sindona del pericolo che riguardava Ambrosoli. Ma i giudici, in assenza di una denuncia circostanziata, malauguratamente non ritennero di intervenire.
Marcello Sorgi, La Stampa 8/6/2014