Antonio Gnoli, la Repubblica 8/6/2014, 8 giugno 2014
ARTURO SCHWARZ
[Intervista] –
Che cos’è che mi assilla durante tutta la conversazione con questo signore che alterna la memoria precisa dei fatti con i piccoli spazi regalati all’oblio? Sono qui, nella sua casa milanese a due piani (forse tre considerando la parte sotterranea), in mezzo ai 40 mila volumi e alle opere d’arte che con sincretica abilità ha messo insieme lungo il corso di una vita. Sono qui, seduto davanti ad Arturo Schwarz che mi fissa attraverso le spesse lenti e chiede domande esatte, precise, circostanziate. E mentre chiede si accarezza la barba. Detesta la vaghezza. Ha accanto la nuova compagna. Si chiama Linda. Apprendo che stanno insieme da sei anni e che si sono sposati da poco. Il vecchio maschio alpha sorride alla donna bionda. Premurosa e taciturna, lei lo guarda senza frenesia. Si nota la grande differenza di età. Ma invece di sorprendermi mi fa pensare a due corpi finiti, per caso e forse felicemente, nella stessa orbita. Che cos’è che mi assilla allora? È l’idea che la natura si possa forzare? Cambiarne le leggi? Stravolgerle? Sarebbe comunque troppo. Eccessivo. E allora cos’è? È il fatto che non riesco a capire quanta percentuale “levantina” si nasconda in quest’uomo dalle dichiarate ascendenze egiziane: «Sì, sono nato ad Alessandria d’Egitto e la mia vita è stata una grande avventura», dice con l’aria di chi stia fornendo una biografia dai tratti romanzeschi.
Il nome Schwarz farebbe pensare a origini tedesche.
«Mio padre era di Düsseldorf. Ebreo, sposò un’ebrea milanese: Margherita Vitta, figlia di un colonnello italiano che andò di stanza in Egitto. Fu lì che si conobbero».
Cosa faceva suo padre?
«Era un chimico. Attraverso dei processi di liofilizzazione, inventò un sistema di conservazione del cibo. Fu la nostra fortuna con il governo egiziano».
Com’era Alessandria?
«Popolosa, strana, dal sapore cosmopolita; abitata da commercianti greci, italiani, armeni; da finanzieri libanesi e da diplomatici inglesi e francesi. Ricordo il vociare dei venditori d’acqua e l’intenso profumo dei narghilè. Mio padre mi iscrisse al “Victoria College”. Feci le scuole e l’università francese e inglese: la Sorbonne aveva laggiù un suo distaccamento. Come Oxford, del resto».
E cosa ha studiato?
«Filosofia e scienze naturali. In seguito aprii una libreria. Ma la vera passione in quegli anni giovanili fu la politica. Creai una sezione egiziana della Quarta Internazionale».
Quella fondata da Trotsky nel 1938?
«Sì. E oggi compiuti i novant’anni mi sento più trotskista che mai. Allora, a causa della mia attività politica, fui arrestato e condannato all’impiccagione».
Che anno era?
«Gennaio 1947. Lo ricordo come fosse ieri. Mi prelevarono la mattina presto. Fui trascinato in prigione. L’accusa era sovversione. Mi sbatterono nei sotterranei. Una cella asfissiante, piccola e come unici compagni topi e scarafaggi. Mi rasarono a zero. Mi torturarono strappandomi le unghie dei piedi. Sopraggiunse una cancrena per cui persi l’alluce del piede destro. Infine fui trasferito nel campo di internamento di Abukir».
Come ha fatto a salvarsi?
«Due anni di prigionia in attesa che si eseguisse la sentenza. Prevista per il 15 maggio del 1949. In corso c’era la guerra arabo-israeliana. Che ebbe varie fasi. Nel febbraio del 1949, giunse l’armistizio tra Egitto e Israele. Nel mutato clima fui liberato in aprile».
I suoi genitori?
«Mia madre era morta da tempo. I miei divorziarono che avevo cinque anni. Per un po’ stetti con lei, una donna rancorosa. Cominciò a maltrattarmi: rivedeva in me piccolo quello che un giorno era stato suo marito. Alla fine mio padre riuscì ad ottenere l’affidamento. La mamma morì nel 1939. La Germania dilatava i suoi deliranti sogni di guerra e io non sapevo più chi fossi».
In che senso?
«Non avevo più un’identità. Nel 1933, come ebreo, persi la cittadinanza tedesca. Presi quella di mia madre. Fu cancellata nel 1939. Ero dunque un apolide. Finita la guerra accettai di riprendermi la cittadinanza italiana. Per cui, quando si trattò di espellermi dall’Egitto, fui mandato in Italia».
Dove?
«Con il piroscafo arrivai a Genova e poi, con il foglio di via, finalmente a Milano. Non avevo soldi, né vestiti, ero solo. Sapevo che per sopravvivere avrei dovuto trovarmi al più presto un lavoro. Feci la sola cosa che avevo già fatto ad Alessandria: misi in piedi una libreria con annessa una piccola casa editrice. La Banca Commerciale, grazie a un cugino che era un funzionario, mi concesse un fido. Che poi mi fu tolto».
Perché?
«Sospetto che ci fosse lo zampino di Togliatti. Pubblicavo i libri di Trotsky e il Pci non amava certo quella figura che era stata fatta assassinare da Stalin. L’anno in cui morì per mano di un sicario avrei dovuto incontrarlo a Coyoacán in Messico dove viveva. Era il 1940. Avrei affrontato un lungo viaggio per mare. Con tutti i rischi della guerra. Ma non feci in tempo. Mi restò un suo biglietto da visita che avrebbe dovuto funzionare da lasciapassare. Deve essere da qualche parte. Conservato come una reliquia».
Mi fa venire in mente le sue considerevoli collezioni?
«Odio la parola collezionismo. Tutto quello che ho raccolto non è stato fatto nel nome della proprietà privata, ma per amore verso l’arte, in particolare verso il surrealismo, che ha segnato la mia vita».
Come è nata la passione surrealista?
«Tutto avvenne dopo aver letto il Manifesto di André Breton. Nei primi anni Quaranta gli inviai le mie poesie. La risposta arrivò sei mesi dopo. Tenga conto che l’Atlantico era infestato dagli U-Boot tedeschi. Mi rispose incoraggiandomi. Da allora decisi di far parte del gruppo surrealista».
Con quali effetti?
«Per me unici. Ero felice di stare in contatto con artisti straordinariamente liberi e onesti».
Onesti?
«Intendo intellettualmente. Breton fu descritto cola me una specie di dittatore che imponeva le sue scelte culturali. Non è vero. L’ho conosciuto bene. Era di una dolcezza e di un’ironia uniche. E poi Duchamp, che incontrai nel 1954. Chi meglio di lui ha interpretato lo spirito dei tempi? E Yves Tanguy? Semplicemente strepitoso. E Max Ernst? Lo conobbi a Parigi. Grande. Ma non ho avuto molta simpatia per lui. Gli rimprovero di aver tradito Breton».
Nelle sue mani, si dice, siano passati parecchi capolavori di quel periodo.
«È vero. Li ho avuti, tenuti appesi, venduti e donati. Duchamp, Man Ray, Masson, Tzara, Dalí, Ernst, Pollock che non era un surrealista, ma proveniva da quel mondo».
Perché dice “donati”?
«Perché circa un migliaio delle mie opere sono finite in quattro grandi musei internazionali».
Cosa ha chiesto in cambio?
«Che le opere fossero catalogate, documentate, accompagnate da una dignità scientifica. È il solo modo per far sopravvivere l’arte».
Tra i musei che cita è compresa anche l’Italia?
«Dopo molte complicazioni burocratiche un consistente nucleo delle mie opere dada e surrealiste sono finite alla Galleria d’Arte Moderna di Roma».
Complicazioni in che senso?
«Non fu per niente facile. Si giunse al paradosso che ero io che dovevo giustificare il lascito e non lo Stato quello di fornire le garanzie per la gestione. La cosa più comica accadde con la mia biblioteca di testi dada e surrealisti che era compresa nella donazione. E che gli specialisti consideravano un pezzo unico. Fu rifiutata perché qualcuno allora insinuò che era robaccia pornografica! Il Getty Museum aveva offerto due milioni di dollari. Alla fine la donai a Israele».
Mi faccia capire meglio questo atteggiamento del “donare”.
«Cos’è che non va?».
Lei è un gallerista. Ha trattato opere. Le ha comprate e vendute. Voglio dire: non sto di fronte a una classica figura di mecenate.
«Ma un uomo è tante cose assieme. E non c’è contraddizione tra un’attività mercantile e il bisogno di trasmettere un patrimonio, per quanto piccolo, senza smembrarlo. C’è – come dire? – una volontà spirituale che reagisce al puro dominio del denaro. Non sarei ancora un trotskista e un surrealista se non pensassi questo».
Se non pensasse che la proprietà è un furto?
«Ecco, leggiamo Proudhon e soprattutto Stirner, ma anche la Cabala e l’Alchimia che ho studiato a fondo».
Cosa c’entrano queste ultime?
«I primi scritti alchemici distinguevano chiaramente l’oro come metallo dall’oro spirituale o “filosofale”. Nelle esegesi talmudiche vengono presi in considerazione sette diversi tipi di oro. In molti testi alchemici Dio stesso è paragonato all’”oro dell’alto”. Siamo in pieno antimaterialismo».
La frequentazione dei testi sacri come la relaziona con il buon Dio?
«Dio è un’ipotesi culturale. Sono ateo da sempre. Con gli anni invece di indebolirsi questa posizione si è rafforzata».
Davvero?
«Eh, già. Certe volte mi chiedo come qualcuno abbia potuto creare un mondo così di merda. Se ci fosse un Dio che avesse realizzato tutto questo, sarebbe un sadico».
In fondo in un mondo così non le è andata poi tanto male.
«Forse perché tutta la mia vita si è svolta sotto il segno dell’amore».
È una parola impegnativa e anche un po’ scivolosa.
«Non me ne frega niente che sia scivolosa. Mi riferisco alle persone che ho amato e che amo».
A chi per esempio?
«Penso alla mia prima moglie: Vera. L’ho amata in maniera totale. E quando è morta, vent’anni fa di tumore, la mia vita ne uscì sconvolta».
Che cos’è un uomo cui viene sottratta una delle ragioni principali della sua esistenza?
«È un essere finito. Posso solo dirle che a un certo punto quel disagio è talmente cresciuto in me da togliermi ogni ragione di vivere. Ero una ridicola mosca senza più ali che si dibatteva freneticamente».
Ha pensato al suicidio?
«Più volte. Ho pensato di farla finita anche prima di incontrare lei, Linda, che ora vede sedermi accanto. Ero stanco. Con problemi fisici seri dopo un’operazione alla schiena andata di schifo. Linda mi ha salvato. Mi ha dato un’altra chance».
Cosa la spaventa della morte?
«Non ne ho paura. Sono avido di vita. Lo sono più ora che ho superato i 90 anni che quando ne avevo 30. Ma so che arriverà il momento in cui sarò nuovamente stanco di vivere. Non so se avrò ancora la forza di ribellarmi. Tutte le ribellioni, però, sono sacre».
Anche quelle contro la natura?
«È difficile ribellarsi alla natura. In questo mi sento molto spinoziano. Quando verrà la mia ora me ne andrò spero senza troppo protestare».
Si percepisce in lei tutto e il contrario di tutto.
«Non capisco se lo intende come un segno di ricchezza o di ambiguità».
Forse entrambi.
«L’uomo è un coacervo di sentimenti contraddittori. Ha un lato sublime e accanto uno deteriore. È generoso e vile; disinteressato ed egoista. È la vita. Prendiamola per il verso giusto. Spero solo di non aver fatto troppe cazzate. Alla fine ciò che avrò dato e anche quello che riceverò. Poi, come tutti, lentamente sbiadirò, senza lasciare traccia».
Lei ha scritto una settantina tra testi di saggistica e di poesia. Mai un libro di memorie. Rientra nella convinzione che tanto tutto è destinato a finire?
«Non lo so, sinceramente. E poi: ho cose più interessanti da fare che mettermi a scrivere le mie memorie. Se qualcosa resterà di me, e dubito fortemente, sarà attraverso i gesti concreti. Non nelle parole».
Cosa vorrebbe indietro che oggi non ha più?
«Non mi manca nulla. Non soffro di nostalgia. Ho perfino conservato intatte le mie radici ebraiche».
Come le definirebbe queste radici?
«Sono la linfa di tutto. E quel tutto ha assunto per me la forma del desiderio di conoscenza e di fratellanza. Nel Tanàkh – cioè nel Vecchio Testamento – si dice, ancor prima che nei Vangeli, una cosa fondamentale: ama il prossimo come te stesso e non fare male a nessuno. È il fondamento della nostra etica civile. Non ne vedo altri».
Antonio Gnoli, la Repubblica 8/6/2014