Enrico Franceschini, la Repubblica 8/6/2014, 8 giugno 2014
ALAN BENNETT
LONDRA
Buon compleanno Alan Bennett, come si sente ora che ha compiuto ottant’anni? «Bene, da seduto. Un po’ meno quando mi alzo in piedi. Nel complesso però non mi lamento». Nemmeno nel salotto di casa sua, a Primrose Hill, “villaggio” di scrittori, artisti e intellettuali di sinistra nel nord di Londra, Alan Bennett si trattiene dal fare una battuta. Il sottile umorismo è il marchio di fabbrica dell’autore di Nudi e crudi, Signore e signori, La sovrana lettrice e tanti altri piccoli e meno piccoli libri, tutti ugualmente deliziosi, che ne hanno fatto il grande vecchio della narrativa inglese contemporanea. Ma il viaggio verso la fama letteraria è partito da lontano; né ci sono stati soltanto romanzi sul suo cammino. Gli propongo di ripercorrerlo insieme come omaggio all’età tonda e importante che ha appena raggiunto. «La prima volta in vita mia che qualcuno presta tanta attenzione alla mia data di nascita», osserva, minimizzando gli auguri che media, pubblico e accademia gli hanno inviato in queste settimane. Per cominciare. Quanto è stato difficile per il figlio di un macellaio di Leeds arrivare fino a Oxford? «Meno difficile di quanto sia oggi. Io ci sono arrivato senza che i miei spendessero un soldo: prima ho fatto le scuole pubbliche, poi vinto una borsa di studio per l’università. Ora l’università costa molto e le scuole private ancora di più. Per quanto mi riguarda l’istruzione privata a pagamento andrebbe vietata, perpetua il classismo, malattia della nostra società». Era molto snob la sua Oxford? «Gli snob non mancavano. Dipendeva dal college in cui capitavi. Nel mio, Exeter, metà degli studenti provenivano da scuole statali come me. Ma riconoscevo i rampolli ricchi dall’accento». A Oxford, Bennett studiò e per un po’ insegnò storia medievale. «Una scelta casuale, non è che mi affascinasse particolarmente. Ma l’insegnante di storia medievale era il migliore e perciò scelsi la sua materia. Avere un professore carismatico, per lo sviluppo di un giovane, è ancora più importante di quello che studia». Per un po’ studiò anche russo: lo ha davvero imparato? «Ebbene sì. Fu durante il servizio militare. C’era la Guerra fredda, qualcuno mi consigliò di arruolarmi nel corso di russo e non me ne sono mai pentito: oltre ad avere appreso una bella lingua, mi mandarono a studiare a Cambridge anziché a combattere in Corea, come capitò a tanti miei commilitoni».
La carriera accademica di Bennett si interrompe quando sale sul palcoscenico universitario, in pratica per non discenderne più. Non era male, come attore, forse avrebbe potuto essere la sua arte? «Non credo. Per diventare attori bisogna volerlo fortissimamente e io non lo volevo neanche un po’. Volevo scrivere, piuttosto». E perché voleva scrivere? «Non so. Era l’unica cosa che mi rendeva felice». Da dove pensa che venisse il suo talento? «Forse dal fatto che mio padre, pur essendo un macellaio, e mia madre, una casalinga, portavano sempre me e mio fratello alla biblioteca pubblica e tornavamo a casa carichi di libri. Ho letto parecchio da ragazzo, ed è merito dei miei. Non desideravano vedermi diventare macellaio». All’inizio ha scritto molto per il teatro e la televisione, com’era il teatro inglese degli anni Cinquanta? «Straordinario per un giovanotto come me. La mia prima commedia fu interpretata da John Gieguld e in sala a vederla c’era Noel Coward. Quando oggi racconto che dopo lo spettacolo incontrai Noel, la gente non ci crede, pensa che se uno ha conosciuto Coward dovrebbe essere già morto da un pezzo. Insomma ho avuto la fortuna di lavorare in teatro nell’epoca dei grandi». E in tv lavorò con Dudley Moore, poi diventato una star di Hollywood: che tipo era? «Una persona molto gentile e l’uomo con la vita sessuale più attiva che abbia mai conosciuto. Aveva sempre la casa piena di ragazze, il problema è che alcune poi le ha sposate».
Qualche settimana fa, intervistato dalla Bbc per i suoi ottant’anni, Bennett ha detto di non dare troppo valore alla propria opera letteraria. Ma ha scatenato un’ondata di polemiche aggiungendo che gli scrittori inglesi non gli «dicono niente», preferisce gli americani, in particolare Philip Roth. Pentito di essersi cacciato nei guai con i suoi colleghi? «Era solo una frasetta sopra pensiero in mezzo a un’ora di intervista, ma i giornali ne hanno fatto un caso. Mi rincresce se qualcuno si è offeso. È vero, non leggo volentieri i miei contemporanei inglesi, preferisco la letteratura americana, ma leggo poco i contemporanei in generale, tutto qui». A proposito di Roth, ci crede, come ha ribadito di recente lo stesso autore americano, che si sia ritirato dall’attività e che non scriverà più una riga? «Mica tanto. È nel suo carattere giocare con i media. Non mi meraviglierei se poi saltasse fuori un suo nuovo libro». E lei continua a scrivere? «Io sì». Trova che con il tempo sia più facile o più difficile? «È sempre difficile. Ma anche piacevole». Che consiglio darebbe a un giovane scrittore? «Di tenere sempre a portata di mano un taccuino mentre legge, e anche quando non legge, per annotare un’idea, una frase letta o sentita, così quando si mette a scrivere non fissa una pagina bianca, ha qualcosa da cui partire». Tace un momento. Riflette. «E un altro consiglio. Non pensare che una vita comune sia priva di interesse. Le vite più ordinarie sono materiale da romanzo, parlo per esperienza personale». Che opinione ha delle scuole di scrittura creativa, così di moda oggi? «Possono insegnare qualcosa sulla meccanica dello scrivere. Ma nessuno può insegnarti la perseveranza necessaria a scrivere un romanzo». Ha mai saputo se la regina ha letto uno dei suoi libri più famosi, La sovrana lettrice? Ride: «Non ne ho idea. Non ho conoscenze all’interno della famiglia reale. Ma, se l’avesse letto, non credo si sarebbe sentita insultata, in fondo nel mio libro parlavo bene della nostra sovrana».
Cambiamo argomento: che ne pensa del sesso? «Che non importa più niente a nessuno di quello che fai. Quando sono andato a vivere in un villaggio dello Yorkshire con il mio partner (un giornalista che dirige una rivista d’arredamento, ndr), ero un po’ preoccupato, ma i vicini mi hanno subito detto che ne avevano viste “di peggio”. Hanno detto proprio così. “Di peggio”. L’abbiamo trovato divertente. E poi è proprio vero, oggi ognuno può fare quel che vuole in materia di sesso» (lui ha dato l’esempio, si dice abbia intrattenuto per anni una relazione eterosessuale con la domestica che gli teneva la casetta dello Yorkshire, prima di privilegiare i rapporti con gli uomini). «Comunque non sono un crociato, uno che va sulle barricate», precisa, alludendo al fatto che non ha sbandierato la sua omosessualità. Del matrimonio gay fatto approvare dal governo Cameron, dice: «Non mi farà cambiare la mia idea su Cameron, che è pessima. Ma mi pare giusto, se due dello stesso sesso vogliono sposarsi, perché no? La Chiesa anglicana resta contraria, non mi meraviglierei se fosse papa Francesco a darci delle sorprese». A proposito: lei crede in Dio? «Non proprio. Però ho passato anni a scuola in cui si iniziavano le lezioni con preghiere e canti religiosi, è qualcosa che ti resta nelle ossa, che risuona in me. Ed è il motivo per cui vado volentieri in chiesa: non per le funzioni, quando sono vuote. E nel cimitero della chiesetta di campagna in cui sono sepolti i miei sarò sepolto anch’io». Ci alziamo. Lo sa, dico tra vecchi mobili polverosi e UN’INFINITÀ di quadri appesi alle pareti, che lei è molto popolare in Italia? «Sì e mi fa più piacere che esserlo in Inghilterra, sebbene non capisca perché agli italiani piaccia il senso dell’umorismo di un inglese». E sa che il suo editore italiano, Adelphi, è tra i più raffinati del nostro Paese? «Forse è il motivo per cui sono così popolare da voi!». Un’altra battuta, per concludere la conversazione. Sulla porta della sua casetta di mattoni a due piani, con i comignoli sul tetto, appreso che abito nei dintorni, Bennett soggiunge: «Grazie della chiacchierata. Ero un po’ depresso, parlare con lei mi ha fatto tornare il buon umore. Se mi vede per strada, faccia un urlo per salutarmi, sono duro d’orecchi». Londra è inondata di un insolito sole: non è bella questa città? «Sì, è bella», risponde. «Ma non mi dispiacerebbe trasferirmi altrove. Nel nord dell’Inghilterra la gente è più cordiale e si trovano ancora città a misura d’uomo. Oggi a Primrose Hill non c’è un lattaio o un panettiere, solo caffè alla moda e agenzie immobiliari. Siete fortunati al di là della Manica, nelle vostre città si può ancora uscire di casa a piedi e andare a comprare un pezzo di pane».
Enrico Franceschini, la Repubblica 8/6/2014