Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  giugno 08 Domenica calendario

TUTTO SOTTSASS. HA DATO FORMA AL NOVECENTO CON LIBRERIE


«Cassoni», annotò con disgusto l’esattore delle tasse inventariando casa Sottsass, un giorno di metà anni Sessanta, per certi mancati pagamenti. Quegli oggetti lisci di «legno qualunque» non potevano essere armadi, e neppure mobili. «Cassoni», verbalizzò inamovibile. Del resto, ammetteva divertita Fernanda Pivano, prima moglie di Ettore Sottsass, l’arredo di quella casa «dava sui nervi anche ai nostri amici», e non erano amici conformisti: Elio Vittorini e Alberto Moravia, Chet Baker e Gregory Corso, Allen Ginsberg e Jack Kerouac... Sfuggiva persino a loro il genio extrascolastico e antinormativo di quel bohémien mite e baffuto che alternava giacche di tweed a cavigliere indiane, hippy maniacalmente ordinato, beat cibernetico, uno dei più grandi e divergenti creatori di forme della storia del design italiano e non solo. Lui, veramente, figlio di architetto, architetto era e voleva essere chiamato, «almeno mezzo architetto, e mezzo qualcos’altro», comunque di case ne costruì; ma giunti al termine delle cinquecento pagine curate da Philippe Thomé che a sette anni dalla morte l’editore Phaidon ha dedicato all’opera omnia del grande designer, negli occhi resta un caleidoscopio di oggetti micro e macro, vasi e villette, macchine per scrivere e poltrone, portaombrelli e posate e computer, divani e copertine di riviste, e capisci che il filo rosso di quasi settant’anni di carriera è quella sua visione unica dell’oggetto “sociale” che ha attraversato il Novecento in diagonale, intrecciando razionalismo e pop, radicalismo e tradizione, ribellione al sistema e nuova cultura industriale.
Nato a Innsbruck, sceso di parallelo in parallelo fino a trapiantarsi a Filicudi, Sottsass è la declinazione solare del modernismo nordico. «Forse non sono un architetto moderno perché sono un architetto mediterraneo», scrisse da Ponza nella rubrica “Foto dal finestrino” che teneva su Domus: «La modernità non è forse stata inventata dai popoli del Nord, dove piove tanto e la frutta non si riempie mai abbastanza di zucchero?».
Eppure era un figlio legittimo e consapevole del Bauhaus, discepolo di Le Corbusier, «mio eroe visionario», ed era del tutto convinto che «la forma è la funzione»; solo che per lui la funzione non era «l’ultima parola», non equivaleva alla mera utilità, non era schiava dello scopo materiale, ma era «adeguatezza alla vita», e quindi era una questione di «funzioni sensoriali, emotive e perfino erotiche». Contò molto quella casa milanese «luogo di pellegrinaggio di anarchici, capelloni, antimilitaristi, contestatori», sorta di circolo controculturale aperto a orari fissi, riempito dagli amici beat di Nanda. Contarono gli incontri con Picasso, Hemingway, Pound, Brancusi, Alice Toklas, e con gli artisti che gli presentò la seconda moglie, Barbara Radice, figlia del pittore Mario. Così come contarono, molto, le «operazioni mentali di liberazione » che furono i suoi viaggi-pellegrinaggi nell’America «lucida patinata» ma col brivido della ribellione giovanile, e nell’India della spiritualità. La critica a volte lo ha dipinto come un genio bipolare, da una parte il sovvertitore anticonformista degli schemi, dall’altra il confezionatore di oggetti seducenti per il mercato; da un lato la sua consulenza con la Olivetti, dall’altra la sua simpatia per i giovani radical dell’architettura Italiana, che incoraggiò, e che lo spinse a fondare Memphis, laboratorio di progetti spesso irrealizzati, che però attirarono l’attenzione del MoMa di New York.
Ma le due vocazioni, per lui amante delle «situazioni bastarde», erano una sola. Valentine , la macchina per scrivere portatile che disegnò per un Olivetti già preoccupato dall’aggressiva concorrenza dei giapponesi, con quell’impertinente carrozzeria rosso fiamma, la tastiera-paraurti, e la custodiasecchiello che lui avrebbe voluto di banale moplen perché fosse un oggetto economico (per risparmiare aveva proposto che scrivesse solo in maiuscole), da vendere «nei supermercati di periferia, accatastato in pile», in realtà vendette assai poco, ma diventò un’icona pop, un design di culto. In un’epoca in cui le macchine da ufficio erano tutte grigie o nere Sottsass osò proporre, sempre a Olivetti, un terminal elettronico da ufficio color prugna. Non era bizzarria o provocazione.
Sottsass aveva capito in grande anticipo sui tempi che l’elettronica non poteva crescere nello stesso ambiente visuale della meccanica, che il nuovo paesaggio dei computer avrebbe dovuto trovare la propria forma- funzione-emozione. Quando ancora i cervelli elettronici erano grandi come appartamenti, progettò Elea, il primo calcolatore tutto italiano, interamente transistorizzato, come un labirinto bio-tecnologico «metafisico e inespugnabile», dalle superfici specchianti, «lago di ghiaccio», abitato da «automi d’argento». Intanto per l’amico Sergio Cammilli e la sua Poltronova, dopo interminabili discussioni-viaggio sulla sua Topolino B usata, progettava i Superbox, mobilimonoliti, tattili, sfacciati nel loro colorato rivestimento a righe di laminato plastico, arredi «privi di nostalgia e memoria», oggetti liberi dalle ideologie del Novecento. Sognava un Pianeta Fresco, come il titolo che diede alla rivista di cui nominò Allen Ginsberg «direttore irresponsabile».
Eppure del suo secolo era ghiotto, collezionista vorace armato di macchina fotografica, che «a volte è stupida ma funziona»: decine di migliaia di foto ci ha lasciato, riordinate con cura, ma in tassonomie bizzarre, borgesiane. Gli servivano proprio per decifrare i segni di una nuova vitalità del mondo, impararne con umiltà la lingua popolare, restituirla in forma di cose. «Quel che volevo fare coi miei mobili» diceva, lo facevano già le ragazzine sixties che calzavano «stivali di cerata bianca sopra calze a righe, quadretti, bolli»: e lui le copiava. Chi lo ha considerato un innovatore troppo timido, un ribelle troppo poco schierato, non ha capito la morale della sua rivoluzione soffice: «Se devi metterti in sintonia con una cosa molle come la storia, non puoi farlo con durezza».

Michele Smargiassi, la Repubblica 8/6/2014