Raffaele Sardo, la Repubblica 8/6/2014, 8 giugno 2014
“NE HO UCCISI COSÌ TANTI CHE NON ME LI RICORDO” LE CONFESSIONI DI IOVINE
NAPOLI.
«Ho commesso tanti omicidi, non li ricordo tutti. Sono stato l’esecutore materiale per alcuni e per altri il mandante. Per alcuni sono anche stato assolto in appello». La prima volta del boss Antonio Jovine è un profluvio di parole, ammissioni, spiegazioni. Racconta la sua vita di camorrista, illustra il sistema corrotto in cui gli imprenditori li andavano a cercare. «Ogni mese potevo contare su centomila euro per pagare gli stipendi agli affiliati e per soddisfare le esigenze personali».
Se dimentica il numero dei suoi assassini, non scorda però la sua affiliazione alla camorra e di quel momento narra tutti i particolari. “’O ninno” è uno dei pezzi da novanta della camorra casalese degli ultimi trent’anni. Cinquant’anni quasi compiuti, di cui più di trenta passati nelle fila del clan. Fisico asciutto e quel neo in faccia a renderlo subito riconoscibile, come quando l’hanno preso. Parla per la prima volta in un processo dopo la sua scelta di collaborare con la giustizia. Risponde in videoconferenza da una località segreta alle domande del PM Antonello Ardituro. L’occasione è l’udienza del processo che vede accusato di concorso esterno in associazione mafiosa Enrico Fabozzi, consigliere regionale ed ex sindaco di Villa Literno, insieme ad altri sette imputati, tra imprenditori e impiegati comunali.
«Ho deciso di parlare per dare una svolta alla mia vita e per dare un futuro migliore alla mia famiglia ». La voce è ferma il tono è deciso ma è come se stesse raccontando la vita di un altro. «Fui affiliato alla camorra da Antonio Bardellino e Vincenzo De Falco. Avevo appena vent’anni». Racconta Iovine che è stato condannato all’ergastolo nell’ambito del processo Spartacus per l’omicidio dell’imprenditore Mario Diana: «Mi fecero recitare una formula in cui giuravo assoluta fedeltà al clan e di non tradirlo mai. Mi punsero un dito mentre nell’altra mano tenevo un santino. Ricordo bene quel giorno. Era il 10 giugno del 1984, tornavamo dalla tenuta dei Nuvoletta a Marano dove facemmo il raid in cui fu ucciso Ciro Nuvoletta. L’omicidio rientrava nello scontro tra i mafiosi corleonesi, alleati dei Nuvoletta, e il gruppo dei casalesi. I siciliani avrebbero voluto che Antonio Bardellino uccidesse Tommaso Buscetta, ma Bardellino si rifiutò e agì d’anticipo perché temeva per la sua vita». ‘O ninno conosce tutti i segreti di quel mondo che ha prima frequentato come picciotto di sgarro e poi come capo clan. «Ogni imprenditore sceglieva autonomamente il suo camorrista di riferimento. In cambio ottenevano da noi aiuti per gli appalti e protezione durante l’esecuzione dei lavori. La protezione costava all’impresa tra il 3 e il 6%, di cui la metà finiva nella cassa comune del clan e il restante 50% al boss di riferimento». Nel suo racconto durato almeno quattro ore ci sono anche i rapporti con la politica. «L’appartenenza politica dei sindaci per noi era ininfluente — ha risposto al PM Ardituro — Lo sapevano anche i bambini che a San Cipriano d’Aversa il vero sindaco era “Peppinotto”, il nostro affiliato Giuseppe Caterino e che Michele Zagaria si vantava di scegliere lui i sindaci a Casapesenna ». Tira in ballo l’Ufficio tecnico del Comune di Villa di Briano dove un funzionario controllava le gare d’appalto per suo conto «Apriva le buste per noi la sera prima e metteva i numeri giusti nelle offerte che servivano a vincere le gare». Iovine parla anche di una società di fatto tra il primo cittadino del Comune di Teverola e un affiliato. E poi l’affondo sul personaggio più noto del mondo della politica «Nicola Ferraro, — che è stato anche consigliere regionale dell’Udeur — Risolveva i rapporti tra il clan e gli enti pubblici. Ci rivolgevamo a lui per qualsiasi problema che avevamo nella pubblica amministrazione».
Poi arriva il capitolo dei suoi rapporti con un altro pezzo da novanta della camorra, Michele Zagaria. «Negli ultimi anni tra me e Michele Zagaria, i rapporti si erano incrinati. Ci siamo allontanati. Cercavamo di non incontrarci e quasi non ci sopportavamo, continuavano i nostri affari e se mi serviva qualcosa glielo facevo sapere. Prima però, avevamo fatto anche le vacanze di luglio e agosto insieme, in Francia, Grecia e Portogallo. Partivamo con gruppi di persone che ci garantivano tranquillità e latitanza con documenti falsi. Il mio nome era Antonio D’Aniello, Zagaria invece lo chiamavamo “zio Angelo”». Un paio di volte sono stati fermati dalle forze dell’ordine: una volta dalla gendarmeria francese e un’altra da quella spagnola. Ma ora la crisi è arrivata anche nei clan. «Il sistema si incrinò nel 2010 dopo la sentenza definitiva del processo “Spartacus”, quando il clan subì una frammentazione e contemporaneamente “una crisi economica” che ha portato a tagliare gli stipendi agli affiliati ordinari».
Raffaele Sardo, la Repubblica 8/6/2014