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 2014  giugno 08 Domenica calendario

ABU MAZEN

[Intervista] –

RAMALLAH
L’invito di Papa Francesco è un atto di grande coraggio», dice il presidente della Palestina a Repubblica. «Niente deve fermarci nella ricerca di soluzioni in cui entrambi i nostri popoli possano vivere ognuno nel proprio Stato sovrano. Ma non è facile, perché il potere oggi in Israele è nelle mani degli oppositori degli accordi di pace di Oslo». Oggi Abu Mazen sarà in Vaticano insieme al presidente israeliano Shimon Peres e al patriarca ortodosso Bartolomeo I, per la storica preghiera di pace promossa da Papa Francesco. Un’iniziativa che arriva in un momento di dura contrapposizione, con la costruzione di tremila nuovi insediamenti israeliani in Cisgiordania e a Gerusalemme est decisi dal governo Netanyahu: «Una provocazione, la formazione del nuovo governo palestinese con Hamas è solo un pretesto.
«In questi anni con Peres abbiamo sempre mantenuto i contatti, nonostante i divieti e le imposizioni di qualcuno».
È mattina presto, i corridoi della Muqata sono deserti. Il presidente Abu Mazen è passato a prendere le sue ultime carte, gli appunti dal tavolo del suo studio al secondo piano, prima di partire per Roma dove oggi pregherà in Vaticano assieme al Pontefice, al presidente Peres e al Patriarca di Costantinopoli Bartolomeo per «la pace in Terrasanta», nella speranza di favorire un dialogo che adesso sembra quasi impossibile. «L’invito del Santo Padre è stato coraggioso. Papa Francesco ha messo in campo la sua grandezza spirituale e umanitaria, e con questa preghiera mandiamo un messaggio a tutti i credenti delle tre grandi religioni e anche delle altre: il sogno della pace non deve morire. Niente deve fermarci nella ricerca di soluzioni dove entrambi i popoli, quello palestinese e quello israeliano, possano vivere ognuno nel proprio Stato sovrano e nel proprio territorio riconosciuto internazionalmente, compresa Gerusalemme, città aperta a tutti i credenti del mondo senza Muri».
L’annuncio di giovedì scorso di oltre tremila nuove case negli insediamenti colonici della Cisgiordania e a Gerusalemme Est non sembra l’atto di un governo deciso a marciare verso il dialogo...
«Queste nuove costruzioni sono una provocazione da parte del primo ministro Netanyahu, che ha scelto stavolta come pretesto la formazione del nuovo governo palestinese. Lo sblocco di queste costruzioni, e delle 12 mila che le hanno precedute nell’ultimo anno, hanno sempre sollevato le proteste degli Usa e della comunità internazionale. Questa è una rappresaglia senza senso».
L’America però stavolta non vi ha lasciato soli.
«Apprezziamo molto gli sforzi del segretario di Stato Kerry e del presidente Obama. Augurandoci che il Congresso americano non prenda decisioni opposte, sulla spinta di pressioni di lobby interne. Dopo le elezioni del 2005, la posizione americana ed europea è stata chiara, nessuna collaborazione con chi non accetta questi tre principi: riconoscimento di Israele, rinuncia alla violenza e al terrorismo, accettazione degli accordi di pace precedenti. L’attuale premier e i suoi ministri hanno ripetuto pubblicamente questi tre impegni. Perché questo è un “governo del presidente” che lavora su questioni civili e economiche con un ruolo particolare per l’organizzazione delle elezioni politiche e presidenziali entro la fine dell’anno».
Signor Presidente, è Hamas che è diventato moderato oppure lei, come dice Netanyahu, è diventato un estremista?
«Mai lasciar cadere la possibilità di un dialogo, anche interno. In Irlanda negli anni Novanta — quando l’Ira abbandonò la lotta armata — nessuno accusò i mediatori di quell’intesa di aver preso le parti del terrorismo. Dobbiamo cercare di moderare e dialogare con chi ha posizioni estremiste. E allora perché non considerare che se Hamas accetta un programma moderato questo è un fatto positivo. Netanyahu di nuovo ha inventato una cosa: basta pronunciare la parola Hamas per chiudere i rapporti. E pretende che Stati Uniti, Europa e gli altri facciano lo stesso. Riguardo al riconoscimento reciproco fra Olp e Israele, per noi è sempre valido ogni accordo già firmato».
Lei preme per elezioni politiche e presidenziali entro la fine dell’anno. Davvero ha deciso di andare in pensione?
«Ho espresso pubblicamente il mio desiderio di non presentarmi, ma questo non significa che non senta la responsabilità di fronte a quello che può accadere da qui fino al voto. Il prossimo 4 agosto ci sarà il congresso di Fatah, vediamo se il Congresso eleggerà un nuovo leader che posso aiutare».
Circolano già dei nomi qui a Ramallah...
«Con troppo anticipo le candidature si bruciano».
Non teme che Hamas — che già vinse contro ogni previsione le ultime elezioni palestinesi — possa vincere di nuovo?
«Non ho paura delle elezioni perché credo profondamente nella democrazia, nessuno è al di sopra il popolo. Il mio desiderio è sempre stato quello di rispettare le scadenze elettorali, è Hamas che dal 2007 a oggi si è sempre rifiutato. Ma stavolta le condizioni sono cambiate».
Se le cose stanno così, a quando la sua prossima visita a Gaza?
«C’è tempo, ci sono molte altre emergenze da risolvere prima, non ultima quella della sicurezza nella Striscia».
La Palestina si è appena guadagnata l’accesso alle fasi finali dell’Asia Cup, per chi farà il tifo a questi mondiali di calcio?
«Arrivare in fondo all’Asia Cup è stato un miracolo. Noi non abbiamo campi d’allenamento e non abbiamo veri stadi, ma il calcio è fatto dai calciatori e i nostri affrontano mille difficoltà in una terra sotto occupazione militare. Uno dei nostri migliori attaccanti è stato arrestato due mesi fa senza motivo ed è in “detenzione amministrativa” (cioè senza una imputazione, ndr).
Servono permessi degli israeliani per spostarsi da una città all’altra, permessi per uscire e andare a giocare all’estero. Un calvario che non trova nessun senso, lo sport può riuscire dove la politica finora ha fallito. L’Italia ha molto aiutato lo sport palestinese e il vostro Coni ci ha sempre sostenuto. E poi nessun palestinese dimentica che quando l’Italia vinse il Mondiale nel 1982, gli azzurri di Enzo Bearzot dedicarono quella vittoria alle vittime del massacro di Sabra e Shatila a Beirut. Per questo dico sinceramente: auguri Italia».

Fabio Scuto, la Repubblica 8/6/2014