Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  giugno 08 Domenica calendario

L’ELOGIO DEL TUTOR: INSEGNARE SIGNIFICA AIUTARE A CRESCERE


Ho insegnato per sei anni, ma non serve essere stati da entrambi i lati della cattedra per non credere più in alcun apprendimento che non sia quello che si genera dentro una relazione. L’attuale scuola di massa non è un luogo in cui quella relazione può realizzarsi in modo sistematico: troppi sono i fattori che la inibiscono in partenza, accumulati in anni di riforme scolastiche scientificamente mirate al risparmio sulle risorse umane, proprio nell’unico luogo che si regge esclusivamente su quelle. Il primo di questi fattori è la perdita del valore insostituibile dell’individualità tra i soggetti coinvolti nell’apprendimento. Danilo Dolci diceva che ciascuno cresce solo se sognato, ovvero che siamo in grado di superare quel che siamo solo se qualcuno è disposto a investire il suo tempo per immaginare quello che ancora non siamo. La scuola italiana attuale non è pensata per questa essenziale funzione della relazione educativa, perché la specificità individuale svanisce nel corpo collettivo della classe, dove le esigenze della media soffocano quelle dei singoli.
Gli alti numeri che si sono generati dagli accorpamenti richiesti nelle ultime perniciose riforme scolastiche hanno ulteriormente ridotto la possibilita che tra docente e allievi si possano instaurare relazioni educative mirate. I casi in cui ancora questo miracolo si realizza si devono alla buona volontà dei docenti, che combattono eroicamente contro un meccanismo scolastico che si attende da loro sempre più funzioni e sempre meno relazioni.
Il secondo fattore di dissociazione tra docente e discente è che il contenuto dell’apprendimento nella scuola di massa ha natura coercitiva, perché non è costruito sui bisogni dell’allievo, ma su un minimo comune denominatore di saperi che nelle intenzioni degli estensori dovrebbe costituire lo standard medio di conoscenze di un cittadino italiano. L’atto stesso di stendere un programma scolastico risponde pertanto a dinamiche ideologiche, non relazionali, e se diventa obbligante è perché non potrebbe essere diversamente: l’obbligo scolastico esiste solo perché nessuno andrebbe mai a imparare qualcosa che non è stato pensato per lui, su di lui, a servizio delle sue inclinazioni e delle sue specifiche attitudini.
Il terzo fattore riguarda la persona del docente, ridotta a facente funzioni intercambiabili grazie a un titolo di studio considerato abilitante e non qualificante. Quel che ti permette di essere chiamato maestro non è il modo unico e irripetibile in cui la tua individualità può fare la differenza, ma è quello che hai appreso: numericamente misurato, istituzionalmente certificato e sindacalmente difeso. A chi esce dall’esame di maturità si chiede che cosa ha studiato e non con chi lo ha fatto, perché nel nostro sistema formativo chi insegna conta sempre molto meno di che cosa viene insegnato, come se le due cose potessero essere scisse.
C’è poi un quarto fattore, meno misurabile eppure infinitamente più influente sulla qualità complessiva della scuola italiana, ed ha a che fare con l’insanabile gender gap di questo Paese. L’insegnamento di base è stato per troppi anni concepito come declinazione dell’accudimento, compito essenzialmente femminile, il che ha progressivamente trasformato il lavoro dell’insegnante in un mestiere per donne, con tutto quello che in Italia significa in termini di avvilimento del ruolo, insignificanza della retribuzione e diminuzione del prestigio sociale. Il risultato è che oggi la scuola dell’obbligo italiana è l’ultimo dei posti dove si rivolge chi ha un minimo di valore professionale da spendere: al netto della passione personale per l’insegnamento, se sai fare e puoi farlo, con ogni probabilità lascerai senza rimpianto che a insegnare sia qualcun altro.
Allora che cosa facciamo, chiudiamo la scuola? Ovviamente no. Che sia per pigrizia politica, per rigidità ideologica o per entrambe le ragioni, la scuola di base così come la conosciamo continua ad apparire comunque la migliore risposta che finora abbiamo saputo trovare al bisogno di istruzione di massa democratica e gratuita. Ma finché è anche l’unica, e quindi continua a incarnare il paradigma dell’idea di apprendimento che acquisiamo sin da bambini, l’istruzione dell’obbligo resta una cattiva risposta alle esigenze dell’educazione complessa. Ci sono molte persone con attitudine all’accompagnamento educativo che non insegnano nelle scuole, ma soddisfano il nobile bisogno umano di coltivare l’altrui intelligenza attraverso quel puro accordo tra maestri e allievi che potremmo chiamare elezione. Molto più spesso di quanto non si creda è dentro a quel sentiero parallelo che l’apprendimento complesso si realizza al suo massimo e lo fa in modo individuale, non coercitivo e qualitativamente significativo, benché non istituzionale. Lo chiamano mentoring, tutorato, filiazione elettiva o in altri modi a seconda di dove si esprime, ma a tutti gli effetti resta un rapporto tra maestro e allievo, dove l’obiettivo non è l’acquisizione di un titolo di studio, di un’abilitazione o di un sapere spendibile, ma la crescita umana di quella singola persona e specificamente di quella.
A praticarla siamo in tanti anche in Italia, non di rado senza figli propri, con o senza grandi possibilità economiche, ma sempre con la volontà chiara di investire tutte le risorse a propria disposizione sulla crescita di qualcun altro. Alcuni si costituiscono in organizzazioni più o meno strutturate, talvolta anche tra ex allievi di scuole d’eccellenza, perché quell’eccellenza chiama alla responsabilità di una restituzione. Dire che questi sono i canali di un’istruzione d’élite sarebbe un errore marchiano: la relazione educativa come fattore primario di apprendimento sarà una fortuna in esclusiva solo finché, in nome di questa o quella spending review, si costringerà la scuola pubblica a rinunciare alle conquiste dell’umanesimo, ovvero a non potersi strutturare per costruire un’idea di umanità rinascimentale, completa e complessa. Finché tutta la macchina scolastica sarà orientata a certificare un’improbabile competenza di massa (cioè in ultima istanza a fomentare la competizione di massa), la scuola italiana si candiderà gradualmente a perdere la capacità di raggiungere persino quella.