Claudio Antonelli, Libero 8/6/2014, 8 giugno 2014
L’UNICO POSTO DOVE L’OCCIDENTE BATTE PUTIN
C’è un posto dove l’Europa sembra aver fermato Vladimir Putin e il panslavismo della madre Russia. È il Kosovo. Nella parte Nord, al confine con la Serbia. Tra le municipalità di Mitrovica nord, Zvecan, Zubin Polok e Leposavic. Una zona montuosa dove vive la gran parte dei 130mila serbi che abitano il Kosovo. Oggi andranno a votare per la prima volta alle elezioni politiche. Compieranno un gesto storico. Che ha un valore molto più ampio del fatto di poter scegliere i rappresentanti in Parlamento. La costituzione del Paese, indipendente in modo unilaterale dal 2008, prevede già dieci seggi riservati all’etnia. Nel 2010 però su 70mila aventi diritto in queste 4 municipalità andarono a votare in due. Oggi la ics nelle urne significa accettare l’autorità di Pristina. E significa avviarsi a piccoli passi verso l’appartenenza a una realtà europea. Cioè, anche per i serbi kosovari smettere di sperare nella grande Serbia. E nel panslavismo. Non certo per scelta autonoma. Ancora oggi qui si paga in dinari e non in euro e gli abitanti ricevono sussidi e pensioni da Belgrado. Le asl e gli ospedali sono serbi e fino allo scorso anno esponevano la bandiera rossa, blu e bianca. Al contrario, la scelta di andare a votare è arrivata perché lo scorso anno Bruxelles ha avviato un primo accordo tra Serbia e Kosovo. Subito dopo in questa grande enclave si sono votati sindaci serbi che hanno accettato di rispondere non più a Belgrado. La linea di demarcazione amministrativa, fino alla scorsa estate non riconosciuta dalla Serbia, è diventata qualcosa di più di un confine amministrativo. Sono stati imposti i dazi in entrata e uscita e la polizia del posto ha iniziato a integrarsi con quella kosovara. In futuro si userà l’euro come nel resto del Paese. Ci vorrà tempo, anche perché chi vive qui si è sentito abbandonato dai politici serbi, ma il processo è irreversibile. È chiaro che la Serbia ha compreso e fatto capire ai serbi del Kosovo che l’unica strada è quella europea e che qui non succederà mai quello che sta accadendo in Ucraina. Anche se a tutt’oggi quattro membri Ue non hanno riconosciuto il Kosovo, l’Europa si è posta con obiettivi precisi e, all’interno della coalizione Nato e del mandato Onu, si è conquistata il peso che un tempo era degli Usa. Ci sono voluti 15 anni. Ma Kfor, il contingente a guida Nato, è riuscito a fare in modo che le forze di polizia locali oggi siano in grado di dare sicurezza ai cittadini (quasi tutti). Soprattutto è stata in grado di trasmettere sul territorio la politica e la visione della Ue nei Balcani.
Ovviamente tutto è più complesso rispetto a qualunque racconto esterno, però la delicata opera di normalizzazione portata avanti da Kfor oggi fa da contraltare alla confusione politica della Ue e della Nato in Ucraina. Al momento in Kosovo operano 5500 militari di 31 nazioni. Circa 500 sono italiani. Nel 1999 erano 50mila, l’anno prossimo diminuiranno fino a rimanere qualche centinaio impegnato in attività di controllo. «La legalità si costruisce col tempo», spiega il generale di divisione italiano Salvatore Farina, comandante di tutti gli uomini di Kfor, «per quindici anni nell’area nord non ci sono state leggi né regole. I sindaci non accettavano di dialogare nemmeno con le forze Kfor. Un tempo incitavano al boicottaggio. Nelle scorse settimane ci hanno chiesto di sostenerli nel corretto svolgimento delle elezioni. E possiamo dire che la compagnia», conclude il generale, «che è ancora oggi presente in pianta stabile per controllare il gate di confine a nord di Leposavic dal mese prossimo non sarà più necessaria. Basterà la polizia kosovara e ovviamente quella serba sull’altro versante». In ogni caso domani ci sarà un nuovo Parlamento ancora più intenzionato a risolvere una volta per tutte tali problemi. Il Pdk, il partito del premier uscente Hashim Thaci, cercherà alleanze con l’Akr di Behgjet Pacolli (fu il marito di Anna Oxa) mentre l’Ldk che si rifà a Ibrahim Rugova prova a stringere una coalizione con il partito di uno dei leader del vecchio esercito kosovaro di liberazione Uck, Ramush Haradinaj. Tutti incalzati dai grillini del partito Vetevendosje. Che si oppone alla casta e punta all’unione con l’Albania.
Un aspetto da non sottovalutare, ma completamente diverso dalla questione rimasta aperta con la Serbia dal 1999. La guerra è ancora troppo vicina. I militari di Kfor, in particolare gli italiani, hanno protetto le comunità serbe dalle vendette e dalle ripercussioni e hanno i difeso (nel 2004) i monasteri ortodossi culla della storia di Belgrado. Li hanno salvati dagli assalti dell’etnia albanese che negli anni ’90 aveva subito la pulizia etnica di Milosevic fino alla rivolta armata dell’Uck. Anche così l’Europa e Kfor hanno contribuito a riportare l’area nell’alveo della geopolitica Ue. E hanno limitato l’influenza della madre Russia. Il che non significa che ancora oggi gran parte di chi vive in Kosovo si senta kosovaro. Anzi. «Il nostro futuro è legato alla grande Albania», esclama dal suo ufficio di Peja (Pec in serbo) Nehmi Lajai, presidente dei veterani dell’Uck, «anche se la comunità internazionale non ci ha mai consentito un referendum per l’unificazione con Tirana noi albanesi siamo più europei dei greci e dei bulgari e la Ue dovrebbe accoglierci e accettare l’annessione». Chissà forse nell’Europa del prossimo decennio ci sarà posto anche per loro, ma è quasi impossibile che i politici entrati in Parlamento a Pristina accettino di cancellare la bandiera del Kosovo.