Sergio Bocconi, Corriere della Sera 8/6/2014, 8 giugno 2014
IL RISCHIO D’INVESTIRE E L’INDIPENDENZA I DUE SEGRETI DI CUCCIA A MEDIOBANCA
«Ho pensato tante volte: devo scrivere un libro su Enrico Cuccia, anche solo per restituire, attraverso la mia conoscenza privata, l’immagine vera a una persona spesso descritta fredda, algida, distante, e che invece era di grande umanità. Poi mi fermavo perché immaginavo che, se glielo avessi detto, mi avrebbe preso a male parole». Alla fine però si è deciso, Giorgio La Malfa. E in Cuccia e il segreto di Mediobanca (Feltrinelli), ha ritratto il grande banchiere attraverso la sua formazione, le idee e gli ideali, i sorprendenti articoli per il «Messaggero», i libri e le lettere, che tanto rivelano della sua personalità tutt’altro che schiva e lontana. Un lavoro che ha richiesto tempo ed è stato possibile grazie alla frequentazione personale assidua con il fondatore di Mediobanca, ai colloqui con chi lo aveva conosciuto da vicino e alle carte messe a disposizione dai figli. A incoraggiarlo perché superasse dubbi e ritrosie è stato Vincenzo Maranghi, delfino ed «erede» del grande banchiere: «Per la verità mi è venuto qualche volta il dubbio che lui e Cuccia ne avessero parlato».
Il ritratto, vivo, mantiene però una distanza «di sicurezza». «Sufficiente per non farne un’agiografia», dice Giorgio La Malfa, e per «scomparire il più possibile come testimone personale». Testimone peraltro «vincolato» alla riservatezza dal banchiere: «Durante i nostri colloqui mi diceva spesso: te lo dico ma te lo dimentichi. Mai quindi avrei potuto prendere nota delle conversazioni».
Descrivere il grande banchiere significa parlare anzitutto della «sua» Mediobanca, fondata il 10 aprile 1946. Giorgio La Malfa la conosce bene: Cuccia, molto legato a suo padre Ugo, lo introduce all’Ufficio studi quando ancora frequenta l’università. Tre anni dopo va a Cambridge e negli Usa e, al suo ritorno, Cuccia gli affida la direzione di R&S (Ricerche e Studi). Eletto deputato del Pri nel 1972, la Malfa jr lascia l’istituto e Milano, ma «con il tempo», scrive, «si stabilì fra noi una consuetudine che si è fatta più intensa fino a diventare uno dei rapporti più importanti della mia vita».
Una conoscenza che gli consente di indicare il «segreto» del successo dell’istituto, ciò che l’ha reso «unico» in Italia e anche nel mondo della finanza anglosassone. Due gli elementi indicati: lo spartito e l’interprete. Il primo è il modello, originale: una banca d’affari che ha rapporti così stretti con lo sviluppo delle imprese da assumersi anche il rischio di partecipazioni azionarie, senza ripetere gli errori che hanno portato alla Grande crisi degli anni Trenta e alla creazione dell’Iri. Raffaele Mattioli, numero uno della Comit, e Cuccia condividono il progetto di riproporre «la Comit di Giuseppe Toeplitz senza gli errori di Toeplitz». Il secondo elemento è Cuccia, al quale viene affidato l’istituto, banchiere che si è formato con Alberto Beneduce e Donato Menichella e ha competenza e autorevolezza fuori dal comune.
Se questo è «il segreto» di Mediobanca, La Malfa sottolinea che la grande forza di Cuccia e del «suo» istituto è l’autonomia, l’indipendenza: ecco il vero tema del contrasto con Mattioli, e non l’estensione dell’attività all’assunzione di partecipazioni. È lo stesso Cuccia a sottolineare che è stato proprio Mattioli «a includere nel progetto di statuto di Mediobanca l’acquisizione di titoli azionari». Cosa invece determini la differenza di opinioni fra i due banchieri è indicato nella lettera di Mattioli a Cuccia del novembre 1961: «Posta in termini sereni e non brutali» la questione è «nell’interesse di chi è amministrata Mediobanca?... Mediobanca è uno strumento delle Bin», cioè delle banche di interesse nazionale azioniste, Comit, Credit e Banco di Roma. L’autonomia è invece secondo Cuccia essenziale per una banca d’affari: «La valutazione del rischio è un lavoro al dettaglio e non all’ingrosso», scrive nel 1996 a Fabrizio Barca. Perciò, sottolinea La Malfa, «dovendo assumersi rischi consistenti, la banca d’affari doveva essere guidata nelle sue decisioni dal proprio esclusivo apprezzamento. Non poteva accettare né suggerimenti né interferenze esterne: questo valeva anche nei confronti dei propri azionisti». Autonomia irrinunciabile dunque, che Maranghi preserverà anche al momento della resa. La Malfa ricorda quanto Cuccia diceva negli anni Novanta («Se è caduto l’impero romano, perché non dovrebbe cadere Mediobanca?») e descrive la «battaglia contro Maranghi» quando, dopo la morte del grande banchiere il 23 giugno 2000, di fronte all’offensiva di Unicredit, Capitalia e Fiat con il sostegno del governatore Antonio Fazio, il successore «accetta di arrendersi, ma chiede in cambio di garantire la continuità dell’intero gruppo degli alti dirigenti della banca».
Autonomia anche dalla politica. La privatizzazione di Mediobanca, lo scontro con l’Iri di Romano Prodi, sono facce della stessa medaglia. Cuccia, rimasto legato agli ideali del Partito d’Azione, si mantiene il più possibile distante dalla politica. E Mediobanca, di fronte alla «degenerazione dell’intervento pubblico», diventa l’avamposto dal quale si combatte la battaglia per difendere il perimetro dell’impresa privata e limitare l’espansione del settore pubblico voluta dalla «fazione dominante». E in un capitalismo povero di capitali la Mediobanca di Cuccia, che al modello manageriale anglosassone preferisce quello «renano» dei noccioli duri di controllo (di qui i patti di sindacato), fa argine a difesa dell’impresa privata: l’alternativa sarebbe stata la sua scomparsa.
Del grande banchiere La Malfa racconta poi la formazione e ne traccia, attraverso soprattutto la corrispondenza, il carattere aperto e disponibile all’ironia. Della sua formazione, seguita con attenzione dal padre Beniamino, fa parte una tappa nel giornalismo, praticamente inedita: Cuccia lavora al «Messaggero» dal 1926 al 1930 e anche dopo il suo passaggio alla Sudameris e il trasferimento a Parigi, continua a inviare corrispondenze. Sono oltre 40 gli articoli pubblicati con lo pseudonimo-anagramma, evidentemente considerato opportuno vista la presenza del padre nel consiglio d’amministrazione del giornale. Il primo articolo a firma Nuccio Riccéa è una recensione di un libro di Mario Praz. L’ultimo ha per titolo Corot disegnatore ed incisore . Sono i libri la grande passione di Cuccia, oggetto frequente dei carteggi che il banchiere intrattiene, fra gli altri, con Francesco Cossiga. E quando quest’ultimo gli dona la traduzione italiana della Apologia pro vita sua del cardinale Newman, Cuccia scrive di averla letta «per la prima volta trent’anni fa, nella edizione dei World’s Classic della Oxford University Press...».
Il volume non può che chiudersi con un ritorno a Mediobanca. Che ha superato anche l’ultima crisi e «resiste alla tendenza alla sempre maggiore dimensione che si va affermando nel mondo. È perché le radici sono molto profonde e le regole operative fissate da Cuccia particolarmente indovinate? Forse è ancora troppo presto per saperlo», scrive l’autore, che non fa cenno alla progressiva uscita dai patti e alla vendita delle partecipazioni avviata dall’istituto in particolare con l’ultimo piano industriale, forse considerando sia troppo presto anche per valutare un simile cambio di rotta. Invece riporta una lettera di «assoluta attualità» che Cuccia inviò nel maggio 1995 a Sir Eric Roll of Ipsden, per molti anni presidente di Warburg. «Vi è l’idea “anglosassone” nella quale la preoccupazione principale delle merchant banks sembra essere quella di ritagliare per sé prestigiose nicchie in quanto intermediari nel mercato dei capitali. Questo consente loro di inflazionare il valore dei servizi con commissioni» irragionevoli «che vanno a incrementare la ricchezza personale dei partners della banca». Di tutto ciò il mondo della finanza ha fatto lezione troppo tardi. E ha già in gran parte dimenticato.