Lorenzo Salvia, Corriere della Sera 8/6/2014, 8 giugno 2014
«TROPPI TAGLI ALLA DIFESA: COSÌ POSSIAMO SOLO PAGARE GLI STIPENDI»
ROMA — «Siamo già arrivati al limite della sostenibilità». Intende dire che non è praticabile un taglio come quello proposto dal commissario alla spending review, Carlo Cottarelli, con un risparmio di 2,6 miliardi di euro entro il 2016? «Intendo dire che se dovessimo rispondere a quella richiesta, per i prossimi tre anni potremmo soltanto pagare gli stipendi. Non potremmo fare più nessun investimento e, cosa ancora più grave, non avremmo più nessuna possibilità di mantenere in efficienza i mezzi e addestrare il personale». Prima di dire la sua l’ammiraglio Luigi Binelli Mantelli, capo di stato maggiore della Difesa, ha preferito lasciar passare il 2 giugno e la parata lungo i Fori imperiali.
Adesso è qui nel suo ufficio in via XX Settembre, un paio di porte oltre la sala 11 Settembre, quella delle riunioni importanti.
Ammiraglio, la spending review riguarda tutti i settori della pubblica amministrazione. Non crede che anche la difesa debba fare un sacrificio?
«Ci mancherebbe, tutte le amministrazioni devono fare la loro parte per il risanamento del bilancio pubblico. La Difesa ha già contribuito abbondantemente. Dal 2004, fatta eccezione per una positiva inversione di tendenza nel periodo del ministro Parisi, abbiamo sempre subito tagli strutturali. E siamo l’unica amministrazione che ha avuto il coraggio di ridurre i posti di lavoro di 50 mila unità in dieci anni».
Sta parlando della cosiddetta riforma Di Paola. Ma i soldi risparmiati con la riduzione del personale dovrebbero restare comunque alla Difesa, per essere spesi in altro modo.
«Nessun’altra amministrazione dello Stato si è data, da sola, un obiettivo così ambizioso. Lo abbiamo fatto a patto che non ci fosse una significativa diminuzione del bilancio, così da poter ridistribuire la spesa in modo diverso. L’obiettivo è utilizzare il 50% dei fondi per il personale, il 25% per gli armamenti, l’altro 25% per il cosiddetto esercizio, dalla manutenzione all’addestramento. Un obiettivo ideale che magari non raggiungeremo mai ma a cui bisogna tendere».
Oggi siamo molto lontani. Sempre secondo il rapporto Cottarelli, per gli armamenti spendiamo 5,6 miliardi. Il 25% sarebbe molto meno, 3,5. Qui non sono possibili risparmi?
«I margini ci sono sempre. Di solito i contratti sono spalmati su più anni, si può accelerare o rallentare a seconda degli scenari internazionali e anche della situazione economica. Però non ha molto senso entrare nei dettagli delle singole voci».
Il Parlamento l’ha fatto. Nella sua indagine conoscitiva sui sistemi d’arma, che presto potrebbe essere trasformata in una risoluzione politicamente vincolante, la commissione Difesa della Camera ha proposto di dimezzare il budget per gli F35, i caccia di fabbricazione americana. Cosa ne pensa?
«Il Parlamento è sovrano ma la pianificazione dello strumento militare è un fatto complesso che richiede certezza nel tempo di risorse finanziarie e coerenza con le missioni assegnate alle Forze armate. Non può essere ridotta ad un singolo sistema d’arma. Non ha senso dire che gli F35 possono scendere da 90 a 80 o a 30. Prima bisogna decidere quelli che noi chiamiamo livelli di responsabilità del Paese nel contesto multinazionale: gli obiettivi del nostro sistema di difesa, le aree di interesse nelle quali dobbiamo essere pronti a intervenire, le esigenze delle alleanze che vogliamo e dobbiamo rispettare. Si tratta dell’essenza del libro bianco che il governo si è impegnato a presentare entro l’anno, solo dopo si potrà parlare di numeri».
C’è chi dice che gli F35 ci farebbero perdere la sovranità operativa perché l’efficienza dei mezzi sarebbe di fatto controllata dagli Stati Uniti.
«L’efficienza dei mezzi è una responsabilità nazionale. Se la mettiamo sul piano dell’operatività le dico che gli F35 ci accompagneranno per i prossimi 40/50 anni. Non li abbiamo scelti solo noi ma diversi Paesi della Nato e dobbiamo considerare questo aspetto se vogliamo rimanere interoperabili con loro».
Quindi nessun taglio è possibile, secondo lei?
«Anche il contratto degli F35 procede per tranche successive ed è sufficientemente flessibile. Tecnicamente, quindi, può essere rivisto. Ma bisogna sempre partire dagli obiettivi del nostro sistema di difesa, che saranno definiti a partire dal libro bianco. Lo ripeto, prima di allora qualsiasi ragionamento sui numeri non ha senso. E buttarla sulla demagogia, con ragionamenti tipo quanti ospedali possiamo costruire con un F35, non aiuta».
Dall’integrazione degli eserciti europei possono arrivare risparmi? Si è parlato della costruzione di un drone europeo.
«Il progetto va avanti, nel giro di cinque anni vedremo i risultati. Ed è un esempio di come l’integrazione può dare, a parità di risorse, una maggiore efficienza. In Europa noi militari siamo più avanti della politica nella capacità di operare insieme, ma ci vuole sempre una decisione politica».
Sono arrivate proposte concrete per l’acquisto della Garibaldi, la prima portaerei della nostra storia?
«Proposte concrete no ma qualche contatto c’è stato».
Si è parlato di Emirati Arabi e Angola.
«Guardi, la nave Garibaldi non è un giocattolo da comprare al mercato. Impiega 600 persone, se si fa avanti un Paese con una Marina militare di 3 mila persone la cosa non ha molto senso».
Lei la Garibaldi l’ha comandata. Forse le dispiace che si cerchi di piazzarla all’estero?
«Entro i prossimi cinque anni entrerà in linea una nuova nave anfibia che prenderà il posto della Garibaldi e di un’altra unità anfibia. Bisogna avere il coraggio di dismettere il vecchio per puntare sulle cose più importanti».
Nei giorni scorsi è stato in India. Quanto tempo dobbiamo aspettare ancora prima di rivedere in Italia i nostri due marò?
«È un momento delicato, perché il cambio di governo potrebbe portare ad una svolta. Dico potrebbe perché in giro vedo molto entusiasmo mentre è bene essere più cauti. Il comportamento dei nostri due fucilieri di Marina è stato esemplare, nella mia visita li ho visti piuttosto provati. I tempi sono maturi per trovare una soluzione».
Nel loro messaggio al Parlamento hanno detto di aver solo eseguito un ordine. Ma a quale ordine si riferivano?
«Probabilmente alla decisione di farli tornare in India dopo che erano rientrati in Italia. Una decisione che hanno rispettato, e questo fa loro onore, ma è chiaro che quel passaggio è stato per loro un vero travaglio».
Sta dicendo che rimandarli in India è stato un errore?
«Hanno volontariamente eseguito una disposizione del governo. Hanno fatto tutto quello che dovevano fare e, giustamente, dicono che sarebbe ora di finirla. Ormai è anche una questione di diritti umani».
Dal 2009 anche per i militari, come per tutta la pubblica amministrazione, gli scatti dello stipendio sono bloccati. Il personale si lamenta.
«È un problema serio che colpisce soprattutto la fasce basse. Voglio ringraziare il ministro Roberta Pinotti che sta affrontando il tema con determinazione, mantenendo anche salda la barra del timone nell’affrontare le diverse problematiche del settore della Difesa. Serve una soluzione concreta ma sostenibile».
Ripristinare gli scatti costerebbe poco meno di 500 milioni di euro l’anno. Le sembra sostenibile nel momento in cui il governo parla di altri risparmi?
«Non sono io il ministro dell’Economia. Ma almeno uno sblocco parziale è davvero necessario».