Omero Ciai, la Repubblica 9/6/2014, 9 giugno 2014
ROMA — È
in frenata il Pd ai ballottaggi nei 148 Comuni in cui le urne non hanno promosso il sindaco al primo turno. Il premier Matteo Renzi, ancora sul banco di prova in questo test amministrativo, non è riuscito a bissare il successo del plebiscitario 40,8 per cento del 25 maggio. E si vedrà da domani, dopo le prime ore di riflessione, quanto peso ha avuto su questa battuta d’arresto lo scandalo delle tangenti per il Mose di Venezia, e quanto le singole realtà locali. Il Pd perde Perugia, Potenza e Padova, ma soprattutto cede la sua «città rossa» da sempre, Livorno, al Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo. Risultati non netti, infine, per il test politico della rinata alleanza tra Forza Italia e Lega al Nord, che vince a Padova ma non porta a casa Pavia; quanto al centrodestra esultanza per Perugia e Potenza, tolte alla sinistra, ma delusione per Vercelli e Bergamo lasciate al Pd.
Il primo vincitore di questo secondo turno delle Amministrative è stato comunque l’astensionismo. Alle 23, chiusura dei seggi, l’affluenza era al 49,49 per cento contro il 70,61 di due settimane fa.
Nei 16 capoluoghi, 13 di provincia e tre di Regione, dove ieri si è votato, il conto finale ha registrato 10 Comuni al centrosinistra e 5 al centrodestra, di cui uno, Potenza, a Fratelli d’Italia. Un capoluogo va ai Cinquestelle. In totale, cumulando i risultati degli eletti al primo turno, i sindaci di centrosinistra sono 18, contro i 14 delle precedenti Amministrative, quelli di centrodestra sono 6, contro i 13 del voto precedente, uno va ai Pentastellati e uno a una Lista civica. Manca ancora il dato di Caltanissetta, dove si vota ancora oggi.
Grandissima sorpresa a Livorno, dove i grillini hanno strappato alla sinistra il Comune. Filippo Nogarin, sostenuto anche dalla lista di sinistra «Buongiorno Livorno», ha vinto con il 53,7 per cento dei voti sul piddino Marco Ruggeri. Ma a Modena, l’altra città dove la sfida era tra Pd e Cinquestelle, il centrosinistra ha portato a casa la vittoria con Gian Carlo Muzzarelli (63,1 per cento), nonostante Marco Bortolotti fosse appoggiato anche da Giovanardi (Ncd), Fratelli d’Italia e Lega. I Cinquestelle vincono a Civitavecchia, che non è capoluogo di provincia ma è un test importante: qui il Pd è stato sconfitto e Antonio Cozzolino è sindaco con il 66,57 per cento dei voti.
A sorpresa, il centrodestra s’è preso Potenza: ha vinto Dario De Luca con il 58,5 per cento mentre a Bari la poltrona di sindaco va ad Antonio Decaro, Pd, sostenuto dal centrosinistra distribuito in 13 liste, che al primo turno aveva sfiorato l’elezione immediata e ieri ha vinto con il 65,4 contro l’ex amministratore di Aeroporti di Puglia, Domenico Di Paola (10 liste di centrodestra), uomo di Fitto.
Lo scontro verbale tra i due contendenti baresi ha trovato un gemello nell’infuocata campagna elettorale pre-ballottaggio di Foggia, dove, con un testa a testa, il candidato del centrodestra Franco Landella ( 50,33 per cento) ha battuto Augusto Marasco, che pure si era alleato con il terzo arrivato del primo turno, Leonardo Di Gioia.
Il centrodestra si aggiudica anche Perugia, tradizionalmente città di sinistra: qui è sindaco Andrea Romizi, con il 58,02 per cento. L’alleanza Forza Italia-Lega è stata messa alla prova in diversi comuni maggiori del Nord. Ma in tutti i casi è il centrosinistra ad avere la meglio. A Vercelli ha stravinto Laura Forte (67,50 per cento), a Biella Marco Cavicchioli (59,2), a Verbania Silvia Marchionini (77,89), a Bergamo Giorgio Gori (53,5). Solo a Cremona Forza Italia e Lega sono rimaste divise, e anche qui ha vinto il centrosinistra con Gianluca Galimberti (56,31 per cento dei voti). Pareggio a Pavia e a Padova, gli altri due test interessanti. A Pavia, Alessandro Cattaneo, il «sindaco rottamatore» di Forza Italia, è stato sconfitto da Massimo De Paolo (53,1 per cento). Ma a Padova, l’ex feudo di Zanonato, vince il leghista Massimo Bitonci, con il 53,5 per cento. Ancora un comune al centrodestra: è Teramo, dove vince il sindaco uscente Maurizio Brucchi con il 51,5 per cento. Al centrosinistra, infine, Terni, dove è sindaco Leopoldo Di Girolamo con il 59,5, e Pescara, dove ottiene la vittoria Marco Alessandrini (65,9 per cento).
Mariolina Iossa
REAZIONI PD
ROMA — Quella «stanchezza» che contagia gli elettori ai ballottaggi, Matteo Renzi l’aveva prevista. Il premier aveva messo nel conto il crollo dell’affluenza, ma certo non si aspettava che il terremoto giudiziario veneziano avrebbe avuto un tale impatto sul secondo turno, guastando con un tocco amaro il sapore della vittoria di maggio. Da ieri notte sulla roccaforte rossa di Livorno, che fu la «culla del Pci», sventolano i vessilli del M5S. «Una ferita», titola L’Unità . Il Pd è sconfitto a Urbino e Civitavecchia e perde due forzieri di voti come Perugia e Potenza. L’effetto-Renzi è mancato anche a Padova, conquistata dalla rinata alleanza tra Lega e Forza Italia.
«Siamo amareggiati per Livorno — ammette a caldo il vicesegretario Lorenzo Guerini —. Le sconfitte bruciano, ma il Pd è passato da 15 a 19 capoluoghi amministrati». Hai voglia a dire che i Comuni al ballottaggio erano pochi e che, dunque, il valore nazionale della competizione è scarso... La frenata del Pd c’è stata e le conseguenze arriveranno presto. Quando tornerà dalla missione tra Vietnam e Cina, Renzi metterà la testa sui problemi del territorio e i suoi prevedono una rivoluzione che fa rima con rottamazione. «Ci vuole gente nuova, anche nelle città» è il leitmotiv intonato ieri notte dai renziani del giro ristretto. «La rottamazione è solo iniziata», conferma Francesco Nicodemo.
Guerini assicura che la polemica tra vecchia e nuova guardia non ha avuto ripercussioni sulla campagna elettorale, né effetti sul risultato: «Si sono impegnati tutti, vecchi e nuovi». Eppure il tema aleggia. Di chi sono gli aspiranti sindaci sconfitti? «Renziani non sono», rispondono nell’entourage del leader buttando la croce sulla sinistra del Pd. L’arresto di Giorgio Orsoni a Venezia ha diviso i «dem», già provati dai fatti dell’Expo e dall’arresto del deputato siciliano Francantonio Genovese per associazione a delinquere. Ma, anche qui, Guerini smentisce che i ballottaggi siano stati un test sulla tenuta di Renzi dopo gli scandali: «Il Mose non c’entra nulla».
Sfumato l’en plein, niente foto di gruppo al Nazareno. I dirigenti hanno atteso i risultati nei vari comitati, su e giù per l’Italia. E anche Stefano Bonaccini parla di «amarezza per le sconfitte a Perugia, Padova e Livorno». I numeri intaccano lo straordinario risultato del 25 maggio, quando le Europee hanno consentito a Renzi di trainare il Pd anche nei comuni. Alfredo D’Attorre cerca il termine giusto: «È un cappottino... Il Pd amministrava 14 Comuni capoluogo, ora siamo a 20 su 28».
A Livorno il M5S ha giocato duro ed è riuscita a spingere i Democratici verso l’autogol, in una città simbolo per la sinistra da sempre. Le liti fra correnti hanno indebolito il Pd locale e bruciato candidati anche validi. Renzi ha scelto di non farsi vedere al secondo turno in nessuna piazza d’Italia e così a Livorno, in rappresentanza del leader, sono andati Lotti e Nardella. Risultato: il candidato di Grillo, in asse con la sinistra-sinistra, si è preso la città umiliando Marco Ruggeri, primo candidato sindaco nella storia della sinistra livornese ad aver subìto l’onta dello spareggio e poi della débâcle. «Sconfitta pesante — ammette deluso — Ci saranno riflessioni e fortissimi cambiamenti da fare».
Per riorganizzare e svecchiare il partito anche sul territorio, Renzi ha affidato a Guerini il compito di avviare una ricognizione campanile per campanile, con l’obiettivo di dirimere contrasti e spazzar via correnti. Anche a Modena il Pd ha tremato. Nella città della Ghirlandina, dove la sinistra aveva sempre vinto al primo turno, il colore rosso sembrava essersi scolorito. Gian Carlo Muzzarelli, braccio destro del «governatore» bersaniano Vasco Errani, ha dovuto lottare fino all’ultimo per trionfare sul grillino Marco Bortolotti. A Padova invece, dove i venti burrascosi del Mose soffiano forte, il leghista Massimo Bitonci ha avuto facile gioco nel finale di partita, potendo mettere in carico all’ex sindaco reggente Ivo Rossi i «legami del Pd con gli arrestati». A Bergamo, per portar via la poltrona al sindaco Franco Tentorio, Giorgio Gori si è visto costretto a combattere contro i tabù della sinistra, che gli rimprovera di aver lavorato a Mediaset. A Bari, infine, la vittoria di Antonio Decaro era già scritta nei 24 mila voti di scarto con Domenico Di Paola, il candidato del centrodestra. «Abbiamo battuto in maniera sonora Fitto e tutto quel che rimane del centrodestra», esulta Michele Emiliano.
Monica Guerzoni
REAZIONI FORZA ITALIA
ROMA — «Fino a oggi mi sono morso la lingua per evitare danni ai ballottaggi. Ma da oggi la priorità sarà chiuderla con questa storia delle liti interne. In un modo o nell’altro. Perché questi dissidi ci fanno perdere voti di sicuro». All’una di notte, Silvio Berlusconi e quelli della sua cerchia ristretta invocano un time out. Qualcuno si lascia scappare che «poteva andare molto peggio». Qualcun altro esalta «l’asse con la Lega» ma ricorda che alla fine «abbiamo vinto solo dove c’erano i candidati di Salvini». Altri ancora segnalano che «contro il Pd in molte città sembra che i grillini abbiano votato per noi (Potenza e Perugia) mentre i nostri hanno votato per i grillini (Livorno)». Il resto, e cioè la maggioranza, rimanda ogni commento a stamattina.
Perché quello che l’ex premier e i suoi hanno davanti agli occhi in piena notte è un puzzle di cui è difficilissimo comporre i pezzi. A Pavia c’è il tonfo di Alessandro Cattaneo, che solo qualche settimana fa era stato elevato al rango di dirigente nazionale di Forza Italia. Al contrario, a Padova il leghista Massimo Bitonci rovescia il risultato del primo turno e sottrae al centrosinistra la giunta comunale. A Bergamo, invece, l’asse col Carroccio si sbriciola, e a sorridere è Giorgio Gori. Mentre a Perugia, inaspettatamente, il centrodestra si presenta a un improvviso appuntamento con la storia e conquista col giovanissimo Andrea Romizi la roccaforte rossa da sempre. Carta che vince, carta che perde. Gioie inaspettate da un lato, dolori cocenti dall’altro. Il tutto così, in una rapida sequenza che vede il fronte berlusconiano lasciarsi scappare Biella e Vercelli, Verbania e Cremona, e – dall’altro lato – conquistare Potenza (grazie ai voti del M5S) recuperando quasi trenta punti. Senza dimenticare che a Cesano Boscone, uno dei posti che suo malgrado l’ex Cavaliere frequenta di più, alla fine la spunta il Pd.
«Questo voto dimostra che c’è bisogno di facce nuove», dicono nella cerchia ristretta di Berlusconi segnalando l’ecatombe di molti sindaci che si fermano al primo mandato. Ma basteranno il miracolo padovano e l’impresa perugina per risollevare l’umore dell’ex Cavaliere? Difficile dirlo. «Dobbiamo ricompattare il partito», è l’ordine di scuderia che da domattina partirà da Arcore. Fuor di metafora, insomma, l’ex premier ha intenzione di prendere di petto la voragine interna che s’è aperta dopo il consolidamento dell’area che fa capo a Raffaele Fitto.
Ha due date cerchiate in agenda, Berlusconi. La prima è il 10 giugno, e cioè domani, quando andrà in scena un ufficio di presidenza di Forza Italia che all’ordine del giorno, però, ha solo questioni di bilancio. Il timore è che gli uomini dell’ex governatore pugliese, pronto a volare a Bruxelles dopo il bagno di preferenze del 25 maggio, possano provocare in extremis un confronto sulle primarie. «E questo va evitato a tutti i costi», è l’adagio più gettonato tra i berlusconiani ortodossi. Ancora più complicata, almeno per il momento, è la «pratica» del 17 giugno, venerdì, quando a Napoli sono (ancora) in programma due manifestazioni contrapposte. Nella prima, quella «ufficiale», sfileranno Toti, il coordinatore regionale De Siano e – chissà – magari anche Francesca Pascale. Nella seconda, che era stata organizzata prima, il protagonista sarà Fitto, che ringrazierà i suoi elettori. Ieri pomeriggio, qualcuno ha lasciato intendere all’ex Cavaliere che, alla fine, l’eurodeputato pugliese avrebbe fatto marcia indietro. E, in effetti, dal partito campano è partito un pressing all’indirizzo di Fitto perché rinunciasse alla sua kermesse. Fatto sta che l’ex governatore – raggiunto al telefono da un amico – ha chiarito che «no, per adesso nessuna marcia indietro, sto avendo le conferme dai pullman che verranno alla mia iniziativa che infatti, al momento, è confermata». Possibile che il mister preferenze del Sud Italia aspetti un gesto del «Presidente» per bloccare la sua iniziativa? Possibile. Perché, in caso contrario, venerdì a Napoli andrebbero in scena le prove generali di un qualcosa che assomiglia tanto a una scissione.
Tommaso LabateLA MAGGIORANZA
degli spagnoli vorrebbe un referendum per decidere se cambiare la forma dello Stato: monarchia o repubblica? È il dato, anche un po’ sorprendente, che emerge da un sondaggio realizzato per El País subito dopo l’annuncio dell’abdicazione di re Juan Carlos il 2 giugno scorso e reso pubblico ieri. Il 62% dei cittadini si dice favorevole alla convocazione di un referendum sulla monarchia anche se poi una leggera maggioranza, intorno al 53%, afferma di preferire come Capo di Stato il prossimo re, Felipe VI, piuttosto che un presidente repubblicano. La maggioranza a favore del referendum è schiacciante tra i più giovani e, nell’età compresa fra i 18 e i 34 anni, sfiora il 75%. Più repubblicani che monarchici a sinistra, nel partito socialista, dove le due opzioni si contendono la maggioranza, con l’organizzazione giovanile — Juventudes socialistas — che ha il ritorno alla Repubblica fra le sue bandiere. E nella “Sinistra Unita”, che a
sostegno dei cortei anti-monarchici di questi giorni, ha lanciato la campagna “Referendum subito”, presentando una mozione in Parlamento. Secondo il sondaggio la scelta di abdicare è stata accolta con favore nel Paese e ha migliorato l’immagine e la considerazione di Juan Carlos.
In una estesa ricostruzione degli avvenimenti degli ultimi mesi alla Corte del re, il quotidiano El Mundo svela alcuni particolari che avrebbero accelerato la decisione. L’idea di lasciare avrebbe preso forza a partire da gennaio quando era diventato evidente che l’immagine del re si offuscava mentre quella del principe andava affermandosi. «Non voglio — avrebbe detto allora Juan Carlos ai suoi consiglieri — che Felipe marcisca nell’attesa come Carlo d’Inghilterra ». Ma è anche la conseguenza di una condizione più generale. «Il re oggi è solo», racconta El Mundo . «Con Sofia praticamente non si parlano» mentre con il principe Felipe, che adesso lo sostituirà, ha una relazione «abbastanza fredda», soprattutto perché il figlio è più legato alla madre «ed è naturale che lo accusi per i brutti momenti che ha vissuto la regina in seguito alle sue avventure amorose». Scarso affetto, segnala la “fonte reale” del Mundo , sarebbe anche quello mostrato da Juan Carlos verso le nipoti, Leonor e Sofia, che dopotutto vivono nel palazzo accanto.
E relazioni «poco cordiali» anche quelle con la principessa Letizia perché «non gli piace».
Restano le figlie Cristina e Elena. Con Cristina, che aveva una eccellente relazione con il padre,
i rapporti «sono completamente interrotti» dopo lo scandalo Urdangarin, l’appropriazione indebita di fondi pubblici, che rischia di portarla nelle prossime settimane alla sbarra. L’unica
con la quale conserva un buon rapporto è Elena, la figlia divorziata. Corinna zu Sayn-Wittgenstein, l’ultima amante del re di Spagna, che viene descritta come “una donna diabolica”, sarebbe
anche la colpevole dello scandalo in Botswana perché «lui ci andò per passare qualche giorno con lei non per cacciare elefanti». Comunque sia, Corinna è scomparsa dai radar un anno
fa e, conclude la ricostruzione, «ormai Juan Carlos è quasi sempre da solo e i suoi weekend sono diventati lunghissimi e
noiosi».