Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  giugno 07 Sabato calendario

COSÌ GLI ARABI SE LA RIDONO DI DITTATORI VECCHI E NUOVI


Jihadisti spietati, predicatori fanatici, mariti e padri che impongono orrori alle loro donne che non si ribellano. All’estremo opposto: giovani eroi pronti a tutto per la democrazia, femministe agguerrite che lottano per la parità. La visione del mondo arabo in Occidente passa per categorie assolute su cui c’è poco da ridere. Ma da sempre, anche e soprattutto in questi anni di rivoluzioni più o meno riuscite, gli arabi ridono, eccome. E non solo in modo leggero e innocente, per dimenticare i problemi. La parola e l’immagine, pur suscitando risate, sono «come la spada, tagliano là dove passano», per citare il grande poeta satirico da poco scomparso, l’egiziano Ahmed Fuad Negm.
È un altro figlio dell’Egitto, dove l’umorismo è davvero lo sport nazionale, il protagonista dell’ultima cause célèbre : Bassem Youssef, una sorta di Crozza locale, giorni fa ha alzato bandiera bianca. Nel suo show El Bernameg , il programma, aveva sbeffeggiato per mesi senza ritegno il raìs islamico Morsi, poi (indirettamente e con mille cautele) il presidente in pectore, generale Al Sisi. Dopo la vittoria di quest’ultimo ha interrotto la trasmissione tv pur campione di audience: se con Morsi era stato interrogato tre ore (più una multa), con il nuovo regime che ricorda tanto l’antico non c’è da scherzare.
Ritiratosi Youssef, mille e più rimangono e non deve stupire. «È dai tempi di Harun Al Rashid e degli altri califfi che la satira araba esiste, popolare ma pure genere letterario», dice Paolo Branca, docente di arabo alla Cattolica di Milano e coautore di Il sorriso della Mezzaluna. Umorismo, ironia e satira nella cultura araba (Carocci, 2011). «A parte Dio e il Profeta, nessuno è stato risparmiato. Se Il libro degli avari di Al Jahiz attaccava in forma erudita i potenti dell’Iraq del IX secolo, due personaggi della tradizione, Joha e Nasreddin, sono l’equivalente di Bertoldo, sempliciotti arguti che parlano senza tabù. Tante opere nel corso del tempo hanno colpito religiosi e politici, costumi sociali di ricchi e poveri, usando come argomenti anche la fede e il sesso, il vino e le droghe. Anche quando una battuta costava il carcere come nella Tunisia di Ben Ali, o ancora oggi nella Siria di Assad, la satira non è mai morta. Al contrario».
È impossibile citare le centinaia, migliaia di nomi e di casi che provano come le parole in prosa, in rima o cantate, e sempre più le immagini, con i video, le vignette e i murales, taglino davvero «come la spada». Meno in tv e sui media ufficiali, di più su libri e giornali dove la censura lo permette, tantissimo su Internet, l’elenco è infinito. Dal celebre cartoonist 62enne siriano Ali Farzat, premio Sakharov 2011 e tra le 100 persone più influenti al mondo per Time nel 2012, che un anno fa ha pagato la sua satira con la frattura di entrambe le mani da parte di miliziani di Assad, al vignettista palestinese Hani Abbas che dalla Siria ha dovuto scappare e ora è esule in Libano. E ancora: dal rapper tunisino ventenne El Général la cui canzone Rais Lebled (capo di Stato) è diventato l’inno della rivoluzione dei gelsomini, ai ragazzi del collettivo The Deadly Satwa Gs condannati a un anno di carcere a Dubai per un video in cui espongono irriverenti il degrado culturale dell’emirato. In Marocco, Les Guignols du Maghreb (versione locale dei Muppets) ha avuto un enorme successo sulla Nessma Tv di Tarak Ben Ammar prendendo in giro i politici senza esagerare, mentre chi fa satira vera anche contro gli onnipotenti amici del Re ha problemi con la giustizia ma non demorde, come il drammaturgo Driss Ksikes e i giornalisti del settimanale Tel Quel . Ovunque, anche nei momenti più duri delle rivoluzioni del 2011, perfino in Libia, la satira è fiorita: nel 2012 furono proprio i ribelli dell’ex Jamahiriya ad organizzare nella vicina Tunisia il primo festival arabo della hijaa , la satira appunto.
«Insieme alla voglia di cambiamento è stata la diffusione di Internet a dare nuovo vigore a questo genere, esploso perfino in Arabia Saudita grazie al web» dice Andrew Hammond, autore di numerose opere sulla regione tra cui Pop Culture: Arab World. «Finora gli autori erano noti solo nel proprio Paese, tranne poche eccezioni. Ma il talk show di Bassem Youssef ha creato un nuovo format transazionale, seguito in tutto il mondo arabo in tv o sulla Rete. Penso che sia stato chiuso proprio per questo: non tanto per i blandi attacchi ad Al Sisi, ma perché molti governi temevano il contagio, soprattutto i sauditi, proprietari tra l’altro del canale che lo trasmetteva. Una censura totale però è impossibile: su YouTube ogni settimana spunta un nuovo programma in stile Youssef, autoprodotto in qualche parte della regione. E sono tantissimi, ovunque, a cliccarli».