Ettore Livini, la Repubblica 7/6/2014, 7 giugno 2014
L’ANALISI
MILANO.
Il paradiso fiscale Italia regala un altro anno da incorniciare (sul fronte degli obblighi erariali) ai giganti a stelle e strisce del web. Google, Apple, Facebook, eBay e Amazon hanno realizzato nel nostro paese nel 2013 qualcosa come 4 miliardi di fatturato. Nelle casse del Tesoro però hanno versato in tutto solo 11,4 milioni di tasse. Qualche centinaio di migliaio di euro in più di quelle pagate da La Doria, gloriosa industria di pelati salernitana che vale in Borsa 300 volte meno di Google. Un terzo dei soldi girati all’Agenzia delle entrate dalla Piaggio. Lo 0,12% dei 9 miliardi di imposte a carico dell’Eni.
Il loro segreto? Facile. Vendono nel Belpaese migliaia di telefonini e valanghe di spot, lucrano sulle compravendite via internet e consegnano milioni di prodotti acquistati online da Bolzano fino a Pantelleria. Gli incassi però sono fatturati alle loro società in Irlanda e Lussemburgo dove le aliquote, grazie a sofisticati meccanismi di “ottimizzazione fiscale” – come dicono pudìci gli esperti – sono quasi a livello di prefisso telefonico.
In Italia restano le briciole. Google, che secondo l’Autorità delle Comunicazioni «controlla il 50-60% della pubblicità online nazionale», ha versato nelle casse di via XX Settembre lo scorso anno 1,8 milioni di imposte. Apple, che per “ Il Sole 24 Ore ” fattura qui da noi circa 2 miliardi, ha pagati 8 milioni di tasse, 3 in più del 2012 (ma ha chiesto il rimborso di 180mila euro di Ires). Amazon – proprietaria di un gigantesco impianto di logistica da 70mila metri quadri a Piacenza dove a fine 2014 lavoreranno mille persone – è a quota 1,6 milioni, la stessa cifra del 2013. Facebook ha firmato al fisco tricolore un assegno di 175 mila euro mentre eBay l’ha lasciato a bocca asciutta dopo aver sborsato nel 2012 la bellezza di 8.401 euro.
Tutto legale, assicurano loro. Malgrado le Fiamme Gialle abbiano aperto un’inchiesta ipotizzando il reato di evasione sia per Apple che per Google. Le filiali italiane – sostengono i big del web – forniscono solo servizi di marketing alle controllanti a Dublino (Facebook, Apple, Google e eBay) e in Lussemburgo (Amazon). Regolarmente pagati e tassati. Le imposte sulle vendite sono versate a monte, all’estero. A quanto ammontano? In Irlanda – dove il motore di ricerca di Larry Page e Larry Brin ha concentrato ben 15,5 miliardi del suo giro d’affari, il 40% del totale – l’aliquota sulle società è al 12,5%. Ma basta un piccolo magheggio fiscale, nome in codice “Double Irish Dutch sandwich”, per far rimbalzare i profitti via Amsterdam fino alle Bermuda, azzerando o quasi l’imposizione. Solo nel 2013, secondo i documenti registrati in Olanda, la società ha traslocato verso le isole dell’Atlantico 8,8 miliardi di dollari.
Il giochetto funziona: Google pagava in tasse il 21% dei suoi profitti nel 2011. Oggi ha tagliato l’esborso al 15,7% «grazie agli utili realizzati in paesi a regime fiscale favorevole », come ammette candido il suo bilancio. Apple è scesa dal 31,8% del 2009 al 26%. E avrebbe parcheggiato all’estero qualcosa come 100 miliardi di liquidità per evitare di pagare le tasse negli Usa.
Questa montagna di soldi, ovvio, non fa gola solo al fisco italiano e ai tanti che chiedono l’introduzione di una web-tax ad hoc per riuscire a far pagare il dovuto a Apple &. C. Obama ha messo nel mirino i 1.700 miliardi di dollari parcheggiati oltreconfine dai big Usa, una montagna d’oro accumulata (almeno finora) senza pagare balzelli a Washington. La Francia ha messo sotto torchio Google minacciando la richiesta di un miliardo di tasse arretrate. L’Italia ha approvato, salvo ritirarla a stretto giro di posta nove giorni dopo l’insediamento del Governo Renzi, la sua web tax.
Queste iniziative in ordine sparso hanno dato finora pochi risultati. E le autorità fiscali internazionali stanno cercando di mettere a punto un approccio comune per “tappare” i buchi dei regimi erariali mondiali. L’Ocse fa da pivot e sta studiando un nuovo quadro di regole. La Ue nel suo ultimo rapporto sulla “Digital economy” di qualche giorno fa ha detto «no» alla web tax accodandosi all’iniziativa dell’Ocse. Le proposte operative dovrebbero arrivare attorno a fine del 2015. Nell’attesa Google, Apple, Facebook, eBay e Amazon rimangono per l’Italia poco più che fantasmi fiscali. A far quadrare il bilancio del Belpaese, in attesa di novità dall’Ocse, ci penseranno ancora le tasse sui pelati de La Doria.
Ettore Livini, la Repubblica 7/6/2014