Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  giugno 07 Sabato calendario

LA RICETTA PER EVITARE LE ARMI


Non si poteva certo immaginare un contesto peggiore per celebrare il settantesimo anniversario dello sbarco in Normandia.
Da anni infatti non si registrava un simile clima di rinnovata contrapposizione fra gli alleati di allora: la Russia da una parte, che di quella epica lotta contro Hitler fu uno dei principali, se non il principale protagonista e - dall’altra - americani ed europei.
Vladimir Putin, anche se certo non un novello Hitler, ha sfidato con prepotenza e pericoloso avventurismo, annettendosi la Crimea, l’equilibrio del dopo-Guerra Fredda, che lui considera uno squilibrio, in quanto caratterizzato dal mancato riconoscimento degli interessi e della stessa dignità della Russia.
Americani ed europei sono stati presi di sorpresa, in parte anche per una scarsa comprensione di una realtà politica che non si può ridurre alla sola figura di Putin.
Proprio in questi giorni, per citare un solo aspetto di questa realtà su cui faremmo bene a riflettere, il prestigioso istituto Levada di Mosca ha pubblicato i risultati di un sondaggio da cui risulta che il 71 per cento degli intervistati ha manifestato opinioni che, per evitare ogni eufemismo, potremmo definire come «antiamericane», pubblicando a titolo di raffronto il dato relativo ad un analogo sondaggio effettuato negli Anni 90, quando solo il 10 per cento dei russi aveva manifestato ostilità nei confronti degli Stati Uniti. La pericolosità della svolta revanscista nella politica estera russa sta forse soprattutto nella popolarità di un dirigente che si rende interprete della frustrazione della stragrande maggioranza di un popolo non certo nostalgico del comunismo, ma sì della grandezza di un impero, zarista o sovietico che fosse.
E’ certo comprensibile la forte preoccupazione dei vicini della Russia, soprattutto baltici e polacchi, la cui storia giustifica i peggiori sospetti nei confronti del vicino orientale. Per tranquillizzarli, Obama - che pochi giorni fa aveva escluso nel suo discorso a West Point che a tutti i problemi si potesse trovare una risposta militare - non ha trovato di meglio se non annunciare lo stanziamento di un ulteriore miliardo di dollari di spese militari, rilanciando nello stesso tempo la tradizionale esortazione agli europei a fare molto di più nel burden-sharing, una più equilibrata ripartizione degli oneri per gli armamenti.
Ma la rinnovata «questione russa» non si risolverà certo con un aumento delle spese militari. Non crediamo che gli F35, per fare un esempio di grande attualità anche nel dibattito che ci riguarda, potrebbero far fronte alle milizie dell’est ucraino, e d’altra parte - anche se è legittimo, da parte americana, chiedere agli europei di fare di più, e soprattutto di meglio, sul terreno della difesa comune - l’arroganza di Putin non dipende certo dalla fiducia di poter contare su un’inesistente superiorità militare. Baltici e polacchi sono già sotto l’ombrello dell’articolo 5 della Nato, quello che definisce un attacco contro un Paese membro come attacco all’intera alleanza, e la debolezza dell’Ucraina - quella che permette a Mosca di giocare sporco, e pesante - è solo marginalmente militare ma in sostanza politica.
Ma cosa è avvenuto al Castello di Bénouville, dove i vertici dei Paesi vincitori della Seconda Guerra Mondiale, e della Germania, si sono riuniti per commemorare lo sbarco del 6 giugno 1944?
Sarebbe prematuro suonare il cessato allarme e celebrare un’ipotetica svolta sostanziale, eppure qualcosa si è mosso. Dopo un’escalation verbale che lasciava promettere poco di positivo, e soprattutto dopo la riunione del G7 di Bruxelles - con una presa di posizione congiunta ferma ma non necessariamente credibile (le divisioni interne allo schieramento europeo non sono un mistero) - in Normandia è successo qualcosa che lascia almeno sperare che la politica non sia morta, e che vi sia a disposizione di americani ed europei qualcosa di più, e soprattutto di più promettente, al di là delle sanzioni e delle spese militari - entrambe utili solo se concepite in funzione di una strategia politico-diplomatica.
L’incontro fra Obama e Putin è certo stato, come immediatamente precisato, una semplice «conversazione informale», ma è importante che sia avvenuto, soprattutto dopo che nel corso delle celebrazioni pubbliche la gestualità del Presidente americano e di quello russo, il loro body language, era stata di ostentata freddezza e reciproco non-riconoscimento. «Sembravano due genitori divorziati alla cerimonia di laurea di un figlio» - scrive oggi il New York Times.
La Casa Bianca ha subito dato un’interpretazione della conversazione che va certo ripresa non perché sia necessariamente autentica (magari un portavoce russo sta in questo momento diffondendo una versione abbastanza divergente), ma perché se ne possono ricavare interessanti elementi sulla politica dell’amministrazione americana. Secondo il portavoce, Obama avrebbe messo l’accento soprattutto sul fatto che un’occasione per rendere reversibile l’attuale escalation è costituita dall’elezione di un nuovo Presidente ucraino, che Mosca dovrebbe riconoscere, oltre a cessare di appoggiare le milizie separatiste dell’Est del Paese.
Sicuramente gli oppositori di Obama, che non sono mai stati così attivi come in questi giorni, lo accuseranno di scarsa fermezza nel tentare un dialogo impossibile, ma ancora una volta emerge, assieme a tutte le incertezze che pure gli si possono attribuire, quel realismo di fondo che fa di necessità virtù, evitando di promettere quello che non si può mantenere e di imbarcarsi - come ha fatto disastrosamente il suo predecessore alla Casa Bianca - in imprese che possono risultare soltanto fallimentari.
Obama in un certo senso tende a «bilateralizzare» il problema, mettendo in primo piano i rapporti fra Russia e Ucraina. E come lo si potrebbe criticare, se si considera la non sostenibilità per Kiev, in termini di economia e anche di sicurezza, di una scelta secca fra Europa e Russia, Est e Ovest?
Non si tratta, va aggiunto, di una patetica illusione. Le celebrazioni in Normandia hanno infatti fornito l’occasione anche per un incontro fra Putin e il nuovo Presidente ucraino Poroshenko, personaggio tutt’altro che radicale, ma piuttosto, come gli altri oligarchi che vediamo schierati tanto sul lato ucraino che su quello russo, pronto a negoziare, ad accettare compromessi, a evitare fratture pericolose.
La guerra di Ucraina, si spera, non avrà luogo. Ma rimarrà, non solo per gli americani, il problema di come affrontare, con una combinazione di fermezza e apertura al dialogo, il rapporto con una Russia difficile e inquietante, una Russia che abbiamo ignorato, dopo la fine dell’Urss, a nostro rischio e pericolo.
Non dovrebbe essere così difficile. La storica partita con l’Unione Sovietica l’abbiamo vinta proprio con la combinazione di contenimento, equilibrio delle forze e distensione. E’ curioso che si possa pensare che la stessa partita non la si possa oggi vincere con un avversario molto meno formidabile sotto tutti i punti di vista: la Russia di Vladimir Putin.

Roberto Toscano, La Stampa 7/6/2014