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 2014  giugno 07 Sabato calendario

DA VIDELA A MANDELA, STORIE DI NOVE MONDIALI


Da Videla a Mandela, sono nove i Mondiali che ho seguito e sei i padroni che ho riverito: Argentina, Italia, Argentina, Germania, Brasile, Francia, ancora Brasile, ancora Italia, Spagna. L’avventura comincia nel 1978, in un’Argentina che la giunta militare ha appena decapitato. Se Mussolini usò il calcio come adrenalina, Videla lo usò come oppio. C’era una cappa strana, seguivo l’Italia di Bearzot, ogni giorno su e giù da Buenos Aires all’Hindu club. Con i nostri c’erano i francesi. Uno si chiamava Michel Platini. Ne avevo sentito parlare.
Voce di popolo: non poteva non vincere, l’Argentina. E giù la prova regina: il 6-0 al Perù di Quiroga, portiere argentino di sangue e di calcoli. Tutto vero. Ma nella finale con l’Olanda, domata per 3-1 ai supplementari, Rensenbrink colpì il palo al 90°: e se avesse segnato? Ricordo l’epifania di Pablito Rossi, un’Italia-Germania Ovest che i più hanno dimenticato perché finì 0-0, ma che avrebbe meritato ben altro strascico, visto come appendemmo al muro i tedeschi; e poi il missile di Haan che Zoff vide tardi e l’occasione che Julio Cardenosa, spagnolo, si mangiò contro il Brasile. A porta vuota, letteralmente. Il pareggio condannò le Furie rosse. Quando vogliamo enfatizzare un rovescio, non necessariamente sportivo, diciamo Corea. Gli spagnoli dicono Cardenosa. La schiappa di Mar del Plata.
Sempre Spagna, sì, ma quella felix del 1982. Seguivo i nostri avversari: Polonia, Perù, Camerun. Erano furibondi, i giornalisti francesi, dopo l’1-1 che sancì la promozione dell’Italia e l’uscita dei “leoni indomabili”. Ct del Camerun era un francese, appunto: Jean Vincent. Gliene dissero di tutti i colori: non aveva osato, non aveva potuto (o voluto?). Si respirava un’aria da fine regime, con il silenzio stampa e la pipa di Bearzot brandita come un’ascia. Invece di implodere, esplodemmo: Paolo Rossi, soprattutto. Tre gol al Brasile, due alla Polonia, uno alla Germania. Stop: torniamo per un attimo a Italia-Brasile. Barcellona, stadio Sarrià (non c’è più). Dovevo occuparmi del derby a distanza tra Bruno Conti e Falcao, Roma contro Roma. Lo raccontai fino alle ultime stille di sudore e allo scambio delle maglie. Il mio servizio, per la Gazzetta dello Sport, venne ripreso da una rivista gay. Misteri della vita: o del lessico, boh.
Messico e nuvole, nel 1986. Le mummie di Guanajuato, la fornace di Guadalajara, da noi “periodisti” battezzata “Guadalacara” per via dei pasti: carissimi. Fu il Mondiale che un giocatore fece vincere a una squadra, e non viceversa. Diego Armando Maradona. Dalla guerra per le Falklands/Malvinas ad Argentina-Inghilterra. La mano de Dios e il gol che, dopo il giro del campo, fece il giro del mondo, e ancora gira. Gli azzurri, spremuti, si inchinarono a Platini, quello dell’Hindu club. Ma non è questo il punto: il punto fu l’Unione Sovietica di Valery Lobanovski. Una macchina costruita in laboratorio, dal calcio totale degli olandesi al calcio meccanico della Dinamo Kiev, traslocata di peso in Nazionale. Polverizzò l’Ungheria (6-0), costrinse la Francia a patteggiare (1-1). Ci salutò negli ottavi, vittima del Belgio, di difensori allegri e guardalinee distratti.
Le Notti Magiche del 1990 le passo con il Brasile, ad Asti. Il Brasile di Sebastião Lazaroni. L’accampamento era nei pressi dello stadio. La novità tattica era il battitore libero: Mauro Galvao. Peggio di un adulterio. Date del cornuto a un brasiliano ma non ditegli che esce col libero. Perde la testa. Franco Rossi era l’Oscar Wilde di noi giornalisti. È mancato a fine ottobre, adorava il mercato e il Brasile. Canotta, bretelle, pancia da oste, sigaretta agganciata a un bocchino tipo lanciafiamme. Distribuiva le interviste, dissertava di titoli e catenacci, era il manifesto della Seleçao.
Con il 1994, si vola negli Stati Uniti. È la Nazionale tutta pressing e crampi di Arrigo Sacchi, in mano a Roberto Baggio. Senza battitore libero, senza centravanti di ruolo. In bilico perenne tra agonia ed euforia. Arriveremo secondi, sconfitti ai rigori da un Brasile che al dribbling di Bebeto e Romario affiancava la prosa blindata di Dunga e Mauro Silva. Struggente, lo striscione in onore di Ayrton Senna, morto a Imola il 1° maggio.
Il mio frammento è però un altro . 17 giugno, aeroporto di Chicago. Ho appena seguito la partita inaugurale, Germania-Bolivia 1-0. Sto andando verso l’imbarco, noto un sacco di gente incollata davanti ai video. Ci butto un occhio. Una Ford Bronco sull’autostrada, elicotteri che volteggiano, auto della polizia che lampeggiano. Un film? Di più:
O. J. Simpson in fuga. Proprio lui, l’ex campione di football accusato di aver ucciso l’ex moglie e un suo amico.
L’edizione del 1998 è in Francia, e della Francia. Allons enfants de la Patrie. Nazionale multi-etnica, con Zinedine Zidane che prima si becca il rosso per aver calpestato un arabo e poi, in finale, incorna per due volte il torero brasiliano. Corner da destra, corner da sinistra: doppietta in fotocopia. E Ronaldo, già, il Fenomeno ha una crisi epilettica proprio a poche ore dall’inizio, scompare dalla formazione e ricompare: a furor di sponsor, la Senna mormorò. L’Italia di Ce-ce-cesare Maldini si schianta su un altro rigore e su un’altra staffetta: da Mazzola-Rivera a Del Piero-Baggio. Quanto basta per spaccare il Paese.
Arrivai a Daejeon, nel 2002, giusto in tempo per accompagnare la “salma” della Nazionale. Mai visto un Trap così imbestialito. Ce l’aveva con l’arbitro Moreno. Le ampolle di acqua benedetta non impedirono ad Ahn, dipendente di Gaucci a Perugia, di concimare l’ennesima Corea del nostro scontento. Nel ’66, del Nord; stavolta, del Sud.
Ronaldo si prese in spalla il Brasile e lo portò al di là di tutto e di tutti, anche della Germania e del suo “Gengis” Kahn, il portiere (e che portiere).
Il cielo sopra Berlino, e la tribuna sotto. Appartengo allo sterminato partito di quelli che non colsero la testata di Zidane a Materazzi. Non lontano da me, c’era Maradona. I cacciatori di reliquie lo avevano accerchiato. Lo chiamai. Mi rispose. Capitan Cannavaro aveva appena alzato la Coppa. Era felice, Diego.
E siamo a Johannesburg, anno di grazia 2010, a Nelson Mandela che saluta il popolo e i sogni da un trabiccolo. Missione compiuta. Emozioni forti. Mi sentivo che l’Italia di Lippi non avrebbe fatto strada. Lo scrissi. Persino lo slovacco Vittek fece scempio dei nostri ruderi. Scrissi anche che l’Olanda avrebbe battuto 1-0 la Spagna. Vinse la Spagna, 1-0. Gol di Iniesta, agli sgoccioli degli sgoccioli. Quanto menarono, i batavi: dal calcio totale ai calci totali.

Roberto Beccantini, Il Fatto Quotidiano 7/6/2014