Riccardo Meggiato; Omar Schillaci, Wired 6/6/2014, 6 giugno 2014
2B – LA STOFFA DEL CAMPIONE
Due “B”: come Buffon e Bassetti, ma anche come la serie in cui il numero uno di Juventus e Nazionale è caduto nel 2006. In una lettera, il mistero di una scelta: quella di diventare azionista di maggioranza di Zucchi. «Gigi, a differenza di altri, ha accettato di andare in B con i bianconeri mentre avrebbe potuto trasferirsi nelle migliori squadre del mondo. Non ha paura di prendersi dei rischi, e se crede in un progetto ci si butta fino in fondo». Riccardo Carradori, ceo del gruppo, risponde così alla domanda che tutti rivolgono a Buffon: ma perché investire 25 milioni di euro in un’azienda storica del tessile, con un debito stimato in oltre 100 milioni di euro? «L’investimento è importante, lo so. Ma io sono un entusiasta della vita e sono positivo per natura. Conosco i rischi e prendo in considerazione il fallimento, ma sono votato al successo», risponde Buffon.
LA STORIA Gigi racconta, seduto al tavolo di un ufficio che un tempo faceva parte dell’area dormitorio dell’azienda: «Da 15 anni ho la passione della Borsa, e Zucchi è un titolo che mi ha sempre colpito. In un paio d’anni, su un totale di circa 200 sedute, chiuse sempre in negativo. Così, piano piano, ho cominciato a comprare un po’ di azioni, ogni giorno».
Le azioni, però, continuano a calare, ma ciò non basta a fermare Buffon. «Ho continuato a comprare, fino ad arrivare vicino al 2%». Poi, in una giornata molto positiva, il titolo s’impenna del 40%. «Ero a un bivio: vendere e guadagnare, o far diventare questo investimento un’avventura seria. Scelsi la strada più difficile per il gusto della sfida, per i miei ricordi di bambino e perché prendere due marchi cosi grossi a prezzi stracciati era un affare». Il portiere si presenta così alla famiglia Zucchi e aderisce agli aumenti di capitale, fino a diventare l’azionista di riferimento. Dal 12% di tre anni fa, oggi è passato al 56%. Buffon muove le manone mentre parla, forse nel tentativo di parare il parabile in un campo in cui ha esordito da poco. «Qualcuno dice che ho buttato via i soldi, che non ci si improvvisa manager. Io rispondo che bisognerebbe essere orgogliosi di quello che ho fatto: un’azienda italiana non è stata saccheggiata dall’estero e le famiglie hanno continuato ad avere un reddito. Io ci ho messo i miei soldi, senza chiedere aiuti».
PRESENTE E FUTURO Orgoglio. Ed entusiasmo. Condiviso con Carradori, che non sa nulla di calcio ma a cui è affidata l’impresa di trasformare i segni meno in più. «Con Gigi abbiamo discusso del futuro di questa azienda. Un futuro difficile in un campo avverso, perché in Italia questo settore ha fatto segnare -7,4% nel 2013. Consapevoli dei rischi, e del futuro di 1200 famiglie, abbiamo deciso di affrontare la ristrutturazione con un approccio diverso».
Nel luglio 2012 Carradori presenta un piano quinquennale. Una delle idee portanti è ottimizzare le giacenze di magazzino, senza crearne di nuove, tagliando i costi di 25 milioni di euro in due anni. Mossa successiva: Zucchi paga i fornitori e dice addio ai punti vendita in perdita e ad altre attività che non portano profitto. «E così abbiamo ricavato qualche altro milione di euro». Buffon interrompe: «Anche la politica deve fare la sua parte. Chi ci governa dovrebbe mettersi una mano sulla coscienza e supportare chi sta cercando di salvaguardare il patrimonio imprenditoriale nazionale e il reddito dei dipendenti». Dall’economia alla politica, un’altra passione del portiere della Juventus, con un unico comun denominatore: la voglia di guardare e cambiare il futuro. Un futuro che fino a qualche anno fa era occupato dalla voglia di fare un’esperienza in Premier League per poi svernare al Genoa, e che adesso è fatto di quote, strategie aziendali, responsabilità. «I sogni esistono per renderci felici, ma non tutti si possono realizzare», continua Gigi, macchiando il suo racconto di larghi sorrisi. «È vero, da piccolo sognavo di chiudere la mia carriera a Genova, ma poi cresci e ti accorgi che nulla sarebbe bello come restare alla Juve e diventare uno di famiglia. In Italia non esiste più altra squadra per me. L’unica per cui potrei fare un pensierino è solo il Parma». La squadra del suo esordio in A, quello che lo ha reso grande e che lo ha portato a sollevare l’unico trofeo internazionale per club: la Coppa Uefa (stagione ’98/99). Poi più nulla. Solo coppe mancate, volute e sfiorate. «La Champions oggi è un pensiero, come tanti altri. Voglio vincerla, ma non mi dispero. Posso accontentarmi dei successi collezionati, che non sono pochi. C’è una cosa che mi dico in quei pochi minuti all’anno in cui mi guardo dentro: “Sei un ragazzo fortunato”, un po’ come Jovanotti. Allora, se sei fortunato, puoi capire di essere felice anche senza aver avverato tutti i tuoi sogni. Se smettessi adesso non avrei rammarichi. L’unica paura che ho oggi è fallire qui, in questa azienda e per queste persone».
LA STRATEGIA Qui tocca a Corradori tranquillizzare il “capo”, schematizzando il piano di rilancio industriale del gruppo. «Tre punti, con una sola certezza: il mercato evolve, se non ti adegui sei fuori». Il primo punto è la distribuzione, che rispetto agli anni ’50 è più importante della produzione. E così, via la manifattura di basso livello, e investimenti solo su quella di qualità. E qui entra in gioco la tecnologia: «Ho introdotto in azienda la stampa digitale, che ci permette di produrre quasi “on demand”, per piccole quantità».
Secondo punto: modificare l’architettura dell’offerta. Carradori racconta che ora si acquistano lenzuola quando il figlio esce di casa, o quando ci si separa, non quando ci si sposa. La logica del corredo è finita, o quasi. E si punta al low cost. «A questo punto, diventa Ikea il tuo peggior concorrente». Mentre trangugia una bibita energetica («la mia droga»), il manager spiega che il colosso svedese, che in questo mercato non esisteva, in un paio d’anni è arrivato quasi al 5%.
Così ecco un’altra scelta strategica: separare Zucchi e Bassetti. La prima è diventata un marchio più fashion, la seconda più pop. Negozi monomarca ed eleganti per il primo marchio, più futuristici per il secondo store “Home Innovation”. Le vetrine, per iniziare, hanno un audio exciter, quindi fungono da casse amplificando la musica. Una volta entrati, c’è un dispositivo che trasforma la foto di ciascun cliente in un algoritmo che riconosce sesso, ceppo etnico ed età. In questo modo Carradori e il suo team hanno statistiche pronte all’uso e senza violare la privacy. «La medesima tecnologia la stiamo inserendo sugli scaffali, per vedere quale prodotto è acquistato da quale cliente». Si calcola così anche la probabilità d’acquisto di ogni articolo. In vetrina, infine, c’è un letto che, grazie a uno speciale proiettore, mostra tutto il catalogo in pochi minuti, senza mettere e togliere di continuo le lenzuola.
Carradori finisce di bere e parte col terzo punto della strategia: l’internazionalizzazione. «Dipendevamo per l’80% dall’Italia, dove, però, il mercato era in continuo calo, così abbiamo investito su Germania e Cina. Nella prima, l’anno scorso, abbiamo fatturato 13 milioni di euro, con un solo prodotto: Granfoulard. Amo la Germania».
Dopo diversi minuti di silenzio, anche il vocione del padrone-portierone si fa risentire: «Bisogna anticipare il mercato, non seguirlo. Vogliamo andare nei paesi emergenti come il Brasile e conquistare gli Usa. In attesa di questi grandi traguardi, mi accontento di vedere un’azienda che sta cambiando pelle secondo le regole del mercato internazionale». Un mercato che oggi non concede folli rinunce nemmeno nel mondo del pallone, dove un tempo si poteva dire di no a offerte fuori dall’ordinario, ma che oggi impone di accettarle. Tipo quelle, eventuali, per un fuoriclasse come Pogba. «Non è detto. Se fossi un dirigente della Juventus direi che so cosa lascio ma non so cosa trovo. Per esempio, se con la vendita di Buffon potessi comprare Messi e Cristiano Ronaldo, io Gigi lo venderei subito».
Carradori annuisce. Buffon si compiace. Un tandem all’attacco della crisi economica. Un ruolo insolito, soprattutto per chi è abituato a restare da solo tra i pali e a sentire addosso il peso della responsabilità. Perché alla fine, si sa, si vince in undici, ma quello che subisce gol è sempre e solo il portiere. Un portiere che oggi ha molte più responsabilità rispetto a quelle calcistiche, e qualche acciacco alla schiena. Ma il futuro dietro una scrivania può attendere: «Ho ancora un paio di soddisfazioni che vorrei togliermi prima di cambiare lavoro». Per prima la Champions: «Lo ripeto, non è un’ossessione per me e sono cosciente che in questo momento valiamo degli ottavi di Champions League, e semifinali o finale di Europa League, ma guarda il Borussia Dortmund o l’Atletico Madrid: tutto è possibile». Come immaginarsi un futuro lontano dalla Juve? «Che il Real Madrid compri Buffon a 36 anni sarebbe strano. E pure io potrei non prendere in considerazione l’offerta. Voglio ancora vincere con la maglia della Juve. E della nazionale. So che al Mondiale non partiamo da favoriti e sarei soddisfatto a entrare tra le prime otto. Ma io non sono nato per la soddisfazione. Io sono fatto per i trionfi».