Alessio Jacona, Wired 6/6/2014, 6 giugno 2014
ADAM CHEYER – INTELLIGENZA ARTIFICIALE? DOVRETE ASPETTARE UN SECOLO. SE NON DUE»
Adam Cheyer, quando era alla Apple, è stato uno dei creatori di Siri e, più in generale, dei moderni “assistenti digitali”. È entusiasta del lavoro fatto: «oggi disponiamo di una potenza di calcolo infinita e siamo in grado di creare macchine che imparano. Ma l’A.I. è un’altra cosa»
Come nasce Siri?
«Siri come si conosce oggi è uno degli spin-off del Calo Project, dove Calo è acronimo di “Cognitive Assistant That Learns and Organizes”. Il progetto è stato voluto e sostenuto dalla Defense Advanced Research Projects Agency (Darpa) con 250 milioni di dollari di investimenti, ha fatto lavorare 400 persone per cinque anni, dal 2003 al 2008, e ha coinvolto 27 centri di ricerca guidati dallo Stanford Research Institute».
Perché proprio un’organizzazione militare come Darpa?
«L’obiettivo era costruire un “assistente digitale” basato su una vera intelligenza artificiale: la sfida era creare un sistema che fosse in grado di percepire la realtà, di imparare ed evolversi da solo grazie all’esperienza, all’interazione e alla comunicazione con il mondo. E che riuscisse a reagire in tempo reale ai vari input».
La missione può dirsi compiuta?
«Per cinque anni ho avuto l’onore di lavorare con i più grandi esperti al mondo di intelligenza artificiale. È stato affascinante, abbiamo fatto passi avanti notevoli, ma quell’esperienza ha anche ridimensionato le mie aspettative. Specie rispetto a quando saremo davvero in grado di creare qualcosa che anche le persone comuni possano riconoscere come vera intelligenza artificiale».
Di quanto le ha ridimensionate?
«Abbastanza da convincermi che per creare un’intelligenza artificiale dovremo aspettare almeno altri cento anni».
C’è da rimanerci male, specie se ci si lascia sedurre dalle mille promesse del marketing. Ma perché?
«Credo ci sia un che di magico e profondo nell’intelligenza degli esseri umani che finora non siamo riusciti non dico a cogliere, ma nemmeno a sfiorare».
Cento anni però sono tanti...
«Oppure sono pochi? Non saprei dire, e non vorrei sbilanciarmi in previsioni. Alla fine degli anni ’50 Ray Kurzweil ha predetto quello che chiamiamo la “singolarità”, ovvero il momento in cui macchine sempre più potenti saranno in grado di replicare i processi della mente umana dando vita a un’intelligenza artificiale superiore alla nostra, e l’ha collocata temporalmente intorno al 2025. Ma tale previsione si basa solo sulla crescita esponenziale della potenza di calcolo dei nostri computer».
Ed è sbagliato?
«Basta focalizzarsi sul software per capire che la risposta è sì. Il computer che uso oggi è vari ordini di grandezza più potente di quello che usavo solo dieci anni fa, ma se guardo al programma di scrittura con cui elaboro i miei testi, mi accorgo che è rimasto fondamentalmente uguale a quando è stato creato, ormai ben trent’anni fa. Quindi, da un lato abbiamo la capacità di calcolo che cresce seguendo una curva esponenziale, mentre dall’altro dobbiamo confrontarci con la capacità umana di comprendere come funzionano le cose e di creare software, che invece si evolvono in maniera molto più lineare. E temo che di tutto ciò Kurzweil non abbia tenuto conto».
In pratica, l’anello debole del processo è l’uomo stesso...
«Siamo noi a produrre il software, che semplicemente finisce col rispecchiare i nostri limiti nel comprendere cosa sia l’intelligenza. Non possiamo replicare con il software qualcosa che non comprendiamo. E anche se oggi siamo in grado di creare macchine che imparano, si tratta ancora di cose superficiali».
Intanto però la ricerca procede.
«Attualmente gli studi corrono su due binari paralleli. Da un lato, c’è un filone che punta a comprendere il funzionamento del cervello umano, che può contare su oltre un miliardo di dollari di investimenti e su una collaborazione tra gli Stati Uniti e l’Europa. Non so esattamente a che punto siano, ma credo di poter dire che abbiano davanti almeno un secolo di lavoro. Se non due».
Addirittura. E l’altro binario?
«Si basa su un approccio software-centrico, che non si cura principalmente di come funzioni il cervello, né mira a comprenderlo, ma piuttosto punta a emularne il funzionamento nel modo più pratico possibile. Un po’ come avviene per un ingegnere aeronautico, che non deve comprendere come faccia un uccello a volare e usa una tecnica molto differente che però funziona e raggiunge lo scopo. Per quanto riguarda il software, credo che progetti come Siri abbiano compiuto alcuni progressi, rendendo la vita di chi li usa migliore e più semplice, e che miglioreranno ancora nei prossimi anni».
Prevede questi tempi lunghi, nonostante tutta la tecnologia che avremo a disposizione in futuro?
«Tra le realtà di cui sono stato cofondatore, oltre a Siri e Change.org, c’è anche Genetic Finance, dove gestiamo una piattaforma che può contare sulla potenza di calcolo di oltre un milione e trecentomila Cpu. È più di quante ne abbiano Amazon, Microsoft o Apple. Su questo hardware gira una piattaforma di Machine Learning che analizza grandi data set per generare previsioni e risolvere problemi nell’ambito di settori come finanza, salute o la genomica. Quindi, riassumendo, disponiamo di una potenza di calcolo quasi infinita, delle migliori tecnologie esistenti di intelligenza artificiale, e riusciamo a trovare soluzioni pratiche a problemi reali, ma siamo ancora ben lontani dall’ottenere quella che possiamo definire vera intelligenza».
Dopo ben due decenni di lavoro su Siri qual è il suo bilancio?
«In questi anni ho creato circa 15 iterazioni del sistema Siri, e ogni versione ha un posto particolare nel mio cuore. Eppure nessuna di esse ha soddisfatto pienamente le mie aspettative e la mia immaginazione. È sempre stato, e resta, un work in progress».