J. Bradford Delong, Il Sole 24 Ore 6/6/2014, 6 giugno 2014
LA GRANDE QUESTIONE DI MERITO
La recensione migliore che ho letto finora de Il capitale nel XXI secolo di Thomas Piketty è quella del mio amico Lawrence Summers, nonché frequente mio co-autore, pubblicata sul Democracy Journal di Michael Tomasky. Andate a leggervela.
Come, siete ancora qui? Dite che non siete disposti a leggere un testo di cinquemila parole? Vi assicuro che sarebbe tempo ben speso. Se siete ancora qui, tuttavia, non ve ne offrirò una sinossi o qualche brano scelto: vi proporrò invece una breve delucidazione su un aspetto piccolo, di secondaria importanza, facendo una digressione sulla filosofia morale nella recensione di Summers.
«C’è moltissimo da criticare nelle disposizioni esistenti di governance societaria», scrive Summers. «Tuttavia, io credo che coloro che come Piketty rifiutano l’idea che la produttività non abbia niente a che vedere con le retribuzioni farebbero bene a riflettere». Perché? «I dirigenti che guadagnano di più non stanno… dirigendo società pubbliche e riempiendo i loro consigli di amministrazione di amici», dice Summers. Al contrario, sono «stati scelti da società private di investimento per amministrare le aziende che controllano. In nessun modo ciò può giustificare da un punto di vista etico i loro compensi eccessivi, ma soltanto sollevare una domanda sulle forze economiche che li generano».
Quest’ultima frase sottolinea che la nostra discussione filosofico-morale su chi meriti cosa ormai è aggrovigliata all’aspetto economico della teoria marginale della produttività nella distribuzione del reddito, in maniera fondamentalmente inservibile. Supponiamo che esistano davvero decision-maker disposti a pagare una fortuna per assumervi alle condizioni normali di mercato, e non lo facciano quindi perché voi in passato avete reso loro qualche favore o perché se ne aspettino da voi in futuro. Ciò non vuol dire in nessun modo, dice Summers, che voi vi «siate guadagnati» o «vi meritiate» il vostro colpo di fortuna.
Se vincete alla lotteria, e il grosso premio che ricevete indurrà altri a sovrastimare le loro probabilità e ad acquistare i biglietti della lotteria e così facendo arricchire chi la organizza, vi «meritate» la vostra vincita? Siete contenti di essere pagati e chi la organizza è contento di pagarvi. In quanto a tutti gli altri che hanno acquistato i biglietti della lotteria, di certo non sono contenti o, forse, non sarebbero contenti se dentro di sé avessero capito davvero quali erano le loro reali probabilità di vincita e in che modo la vostra sia stata sapientemente messa a punto per fuorviarli.
Avete forse l’obbligo di trascorrere la vostra intera vita, dopo aver incassato la vostra vincita, a raccontare a tutti che in verità ciò che avrebbero dovuto fare era investire i soldi spesi in biglietti della lotteria in un fondo pensionistico valorizzato da sostanziosi sgravi fiscali, per mezzo del quale invece di pagare la casa da gioco per avere il privilegio di giocare d’azzardo di fatto sarebbero stati loro a guadagnarci più del 5% l’anno? Siete moralmente obbligati, come nella ballata del Vecchio marinaio di Coleridge, a raccontare la vostra storia a tutti coloro nei quali vi imbattete?
Io direi di sì, sicuramente. E direi che la stessa cosa vale più in generale anche per quei promotori di disuguaglianza che noi economisti chiamiamo «concorsi». In verità, i concorsi sembrano davvero eccellenti meccanismi di incentivo: mettete in palio un numero esiguo di grossi premi e un sacco di gente ne sarà attratta e tenterà la propria sorte. Tenuto conto però dell’avversione umana al rischio, l’unica ragione valida per organizzare un concorso è che esso impone alcune forzature cognitive nei comuni partecipanti. Tu, organizzatore del concorso, li danneggi - o per meglio dire stai danneggiando la loro parte migliore e più razionale - propinando loro forzature. Nel migliore dei casi, li aiuti e li incoraggi a farsi del male da soli (in quanto, come i partecipanti alla lotteria, stanno operando una libera scelta).
Ma non basta: supponiamo che, in qualche modo, voi siate pagati in funzione del vostro vero prodotto marginale per la società. Il fatto che voi siate abbastanza fortunati da essere in grado di poter ricavare il vostro prodotto marginale è una questione… beh, di semplice fortuna. Altri non sono altrettanto fortunati.
Altri scoprono che il loro potere contrattuale è limitato - forse a quello che sarebbe il loro stile di vita se si trasferissero nello Yukon e vivessero lavorando la terra. Vi meritate la vostra fortuna? Per definizione, no: nessuno «si merita» la fortuna. E di che cosa siete in debito nei confronti di coloro che si troverebbero nella posizione di ottenere ciò che si meritano qualora voi non foste stati fortunati a sufficienza da arrivarci per primi?
E, ovviamente, in che senso è merito vostro se vivete nell’ambiente giusto, quello che rende voi e le vostre qualifiche altamente redditizie nell’economia odierna? In che modo, esattamente, avete scelto di essere messi al mondo dai genitori «giusti»? Perché, in definitiva, i vostri successi e i vostri risultati positivi non sono frutto di mera e immeritata fortuna?
Potremmo discutere in modo molto più chiaro di questioni inerenti alla disuguaglianza e alla distribuzione se ci attenessimo semplicemente a considerazioni riguardanti il benessere umano e gli incentivi utili. In quanto al resto, si tratta semplicemente di ideologia meritocratica. E, come indica l’accoglienza che ha avuto il libro di Piketty, quell’ideologia ormai può aver fatto il suo corso.
(Traduzione di Anna Bissanti)
J. Bradford Delong, Il Sole 24 Ore 6/6/2014