Massimo Oriani, La Gazzetta dello Sport 6/6/2014, 6 giugno 2014
MITO POPOVICH
Uno è il decano tra i tecnici dello sport Usa, l’altro sembra ancora un ragazzino infiltratosi al tavolo dei grandi. Gregg Popovich è riverito e temuto. Erik Spoelstra è apprezzato ma sottovalutato. E’ impossibile metterli sullo stesso piano, perché l’allenatore dei San Antonio Spurs non ha più nulla da provare, non ha solo vinto 4 titoli, ha tracciato una via, che molte altre franchigie cercano di seguire. Quello di Miami è un addetto ai video, che, gradino dopo gradino, si è guadagnato il posto di head coach. Ma se a metterlo in quella posizione è stato Pat Riley, uno che di pallacanestro e di persone qualcosina capisce, vuol dire che il materiale era di prima scelta.
Filosofo In campo ci vanno i giocatori, chiaro, ma non va mai sottovalutata l’importanza dei due strateghi. Spoesltra si è fatto le ossa pagando anche sulla sua pelle errori che sono costati cari agli Heat, come nelle finali 2011, quando Rick Carlisle lo surclassò nella serie vinta da Dallas 4-2. Il suo compito è molto diverso rispetto a quello di Pop. La preoccupazione principale è gestire un gruppo formato da tre superstar (due e mezza...), con LeBron, Dwyane Wade e Chris Bosh, i quali hanno sempre messo il bene della squadra davanti alle statistiche individuali ma che sono pur sempre tre prime donne. Ecco allora che Spo diventa psicologo prima ancora che tecnico. Quest’anno ha fatto il miglior lavoro da quando è sulla panchina degli Heat. Tenere alto il livello di concentrazione di una squadra che ha vinto due titoli in fila ed è approdata alla quarta finale consecutiva, è stato un capolavoro. «Come ci sono riuscito? – spiega– So che siete stanchi di sentire questa parola, ma tutto quello che facciamo agli Heat è un percorso. Si guarda solo a ciò che abbiamo davanti. E allora l’obiettivo di questa stagione è vincere l’anello, questo, non il terzo in fila. Quello è un calcolo che si può poi fare a bocce ferme. Se segui il percorso nel modo giusto, alla fine i risultati arrivano. Ma non puoi mai basare la tua filosofia su quelli». Questo è Erick Spoelstra, un paio d’anni da giocatore di basso livello in Germania, dal ‘95 a Miami, anni nel «Labirinto», uno scantinato della vecchia Miami Arena a lavorare su videocassette per fornire a Riley il materiale richiesto. Oggi il coach di origini filippine siede sulla panchina dei due volte campioni e medita sul passato: «Ho grande rispetto per Popovich – racconta – E’ un pilastro della nostra professione. I miei mentori però sono stati altri: Riley, Stan Van Gundy (di cui fu assistente a Miami, ndr.) Rick Adelman, Jack Ramsay, gente con cui sono cresciuto. Pop resta un grande esempio per il livello d’eccellenza che ha raggiunto».
Decano Popovich ha i capelli bianchi, adora il vino e prendersela coi giornalisti. Lo fa un po’ per vezzo, un po’ per scherzo, un po’ perché è realmente infastidito dal dover parlare con gente che ritiene inferiore e che sicuramente lo è in quanto a conoscenza del gioco. Ha avuto la fortuna di lavorare per Peter Holt, «un proprietario che guarda sempre all’insieme delle cose, che sa essere paziente – dice l’allenatore dei texani – e che è sicuro di sè al punto di lasciare che io e RC (Buford, il gm, ndr.) facciamo il nostro lavoro senza interferire». Popovich ha vinto 4 titoli ma la sua Gioconda è stata rimettere insieme i cocci dopo gara-6 del 2013. E riportare ancora una volta (la 5a in 12 anni) i suoi Spurs in finale. Dalla sue costole si sono staccati tanti allenatori, cresciuti sotto la sua guida e ora in grado di camminare coi loro piedi (la lista è lunga, gli ultimi due sono Budenholzer ad Atlanta e Brown ai 76ers, entrambi assistenti agli Spurs sino a un anno fa). Due coach diversi, entrambi vincenti. Tra una decina di giorni uno dei due lo sarà di più.