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 2014  giugno 06 Venerdì calendario

DE ROSSI

[Intervista] –

OSTIA
La casa guarda il mare. L’atmosfera è tranquilla. Daniele De Rossi ha la faccia (e i tatuaggi) da marine, ma il cuore non è selvaggio. C’è la prima figlia, Gaia, nove anni, che in salotto sta cercando di battere il suo record di 500 palleggi, c’è Olivia, tre mesi, ultima arrivata, con un ciuffo da mohicana, c’è la compagna, Sarah Felberbaum, attrice, ma stavolta impegnata sul set del volley. Si sa, le onde vanno e vengono, hanno una loro serenità. Daniele non si è mai troppo allontanato da questa risacca, e quando ha scelto un’altra dimora, si è trasferito a Campo de’ Fiori. Non è tipo da quartiere isolato. Tutta una vita a Roma, nella Roma. Campione del mondo a Berlino (in finale tirò e segnò il terzo rigore), ora in viaggio verso il Brasile.
A 31 anni che si pensa?
«Che a 20 me ne sarei dovuto andare via dall’Italia, fare esperienza di vita e di calcio all’estero. Avrei giocato più Champions e forse più finali. Allargato i miei confini, e i miei confronti professionali. Ma io solo non ci sono mai stato, sono sempre andato a pranzo da mamma e papà, che abitano a tre minuti da me. Stavo nel brodo, molto coccolato, molto figlio. Difficile cambiare una cuccia comoda, più facile che te la aggiusti. Roma ti strega, da qui è quasi impossibile partire. I tifosi ti amano, ti seguono, se cadi, aspettano il tuo riscatto».
Lo sciopero del tifo degli ultrà romanisti a favore dello sparatore del ragazzo napoletano?
«Brutta storia, anche se gli ultrà hanno i loro codici. Dico: c’è uno, ancora in ospedale, che lotta tra la vita e la morte e tu non lo rispetti? Ti fai subito giudice, ti schieri sulla pelle di un ragazzo intubato a letto? Sarebbe meglio prima verificare la ricostruzione dei fatti, aspettare che il ferito esca dalla rianimazione. E sono anche preoccupato per quello che potrà succedere nel prossimo Roma-Napoli e anche Roma-Fiorentina, per i rapporti non magnifici tra le due tifoserie».
Suo padre Alberto ha sempre allenato le giovanili.
«Sì. Non mi sono mai chiesto perché. Di sicuro non voleva troppo allontanarsi da mia madre e mia sorella. E non essendo un allenatore di prima fascia avrebbe dovuto magari trasferirsi in posti un po’ lontani. Papà sta bene con i ragazzi, ci perde tempo con loro e non lo considera sprecato, non tiene le distanze, con Florenzi ha un rapporto bellissimo, si preoccupa se per colpa del loro ambiente molti si perdono. A volte lo sento disperato, mi dice: non sono riuscito ad insegnargli niente».
Magari preferisce la gioventù non ancora contaminata.
«Non c’è più questa differenza. Non è che quelli delle giovanili sono sognatori buoni, pieni di valori. Hanno già gli stessi difetti dei grandi, vogliono le stesse cose, anche se ancora devono arrivare. Non generalizzo, né idealizzo. Ma un baby calciatore guarda il campione, vuole essere al suo posto, parlare come lui, avere la stessa macchina. Non è un alternativo, solo un probabile sostituto».
Bastardi senza gloria?
«I primi a corromperli sono le loro famiglie che insistono perché facciano carriera. I genitori stressano e guastano, soprattutto quelli che vogliono realizzarsi tramite i figli. A forza di spingere, fanno inciampare. E resta che il calcio non è un ambiente bellissimo, ma inquinato come il resto».
Quindi Gaia e Olivia, le sue figlie, se ne terranno lontano?
«Vorrei qualcosa di meglio per loro, anzi di diverso. Spero abbiano modo di realizzarsi. Gaia ama la pallavolo, a me piacciono gli sport di squadra. Socializzi e crei rapporti. Se ho un rimpianto è quello di non aver viaggiato in posti lontani, America, India, Australia, quando ero un ragazzo meno impegnato».
Lei è al suo terzo mondiale.
«È un po’ anche un addio. So che è l’ultima volta che giocherò con Andrea Pirlo, e non ci voglio pensare, sennò mi commuovo. Quando in Germania ero a pezzi, per la squalifica di quattro giornate, Andrea mi ha portato a cena con la sua famiglia e mi ha fatto sentire che non ero un reietto. Allora c’era anche Alessandro Nesta che subì un brutto infortunio e con cui ci siamo fatti compagnia».
Il fallo su McBride la catalogò: l’uomo che alza il gomito.
«Me ne vergogno. Io non sono un killer, né una carogna, non rosico se qualcuno mi supera, non covo vendette, non colleziono cartellini rossi. E da piccolo non ero un attaccabrighe. Ma non sopporto che qualcuno mi stringa, mi trattenga, mi tocchi. È una questione fisica, mi dà fastidio, non ci vedo più, mi si gonfia la vena».
Un aiuto esterno?
«Dallo psicologo non ci sono andato. Non faccio il duro che disprezza quello che passa nella testa, ma voglio tenermi a bada. Reagisco poco, ma quando capita, faccio male. Sono anche sicuro che non capiterà mai più. Oddio: aggiungiamo quasi mai più».
Da allenatore metterebbe il codice etico di Prandelli?
«Ci penso un attimo: sicuramente no. Anche il ragazzo più buono del mondo può andare in confusione. Ma se c’è e lo sottoscrivi, devi anche accettarlo con grande serenità. Ho perso delle chiamate in nazionale per il codice etico, ma non posso né voglio fare la vittima. Lo ripeto: gomitate e cazzotti non sono un mio marchio di fabbrica».
È un’Italia cambiata: per la prima volta con due separati e un divorziato.
«Gigi, Andrea e io. Con Buffon e Pirlo facciamo un bel trio. I tre campioni del mondo superstiti del 2006. Le cose cambiano, nella vita, nella società, nello sport. Se la nazionale di calcio è lo specchio di quello che siamo, giusto sia così, senza troppi commenti morali. Siamo figli di un’altra generazione, ma sì anche i calciatori, non solo si sposano presto, ma divorziano. Restiamo persone ordinarie che fanno un lavoro straordinario, però i dolori sono uguali per tutti, anche se onestamente un operaio ne ha mille più di noi, e senza le nostre risorse. Forse ai tempi di Bearzot un divorziato non sarebbe stato considerato una brava persona, io ad un allenatore che oggi mi facesse un commento del genere riderei in faccia. Anzi gli direi pure: fatti ricoverare».
Nell’ultimo mondiale, in Sudafrica, non si è salvato.
«Ringrazio per la delicatezza. Sono andato proprio male. Ma ero fuso, vuoto, bruciato dentro. Con la Roma in campionato avevamo rincorso l’Inter fino all’ultima giornata. Gli stimoli non tornavano. In più quella spedizione non era proprio ben organizzata, anche perché il Sudafrica non ci dava libertà di spostamento. Dovevamo stare sempre attenti. Sì, dicevamo di essere concentrati sulla partita, ma in realtà avevamo fatto i calcoli, convinti di passare il turno. La testa era già avanti, ma i piedi purtroppo indietro. Non dico fossimo dei bugiardi, è che mentivamo anche a noi stessi».
Com’è stata questa preparazione mondiale?
«Molto faticosa, scientifica, bella. A Coverciano abbiamo lavorato da matti, ma i preparatori ci hanno sempre spiegato tutto e a cosa servivano i test. L’ho trovato stimolante, non noioso, sarà che sono curioso, soprattutto su come reagisce il mio corpo. “Casetta Manaus”, dove è stata ricreata l’umidita asfissiante dell’Amazzonia, ti ammazzava. Correrci era tosto, ma almeno sappiamo cosa ci aspetta».
L’Italia cresceva mastini: Motta e Paletta, oriundi, sono più votati alla difesa.
«Bisogna anche da noi ricominciare ad insegnare a marcare, a curare l’uomo, la tecnica, l’abilità di non far prendere palla all’avversario, il dribbling non è tutto. Non c’entra la zona, c’entra che sui giovani devi investire. Se poi penso che Paolo Maldini, un vero campione di stile, non lavora né nel Milan né in nessun’altra società, mi dico che è un crimine. Lasciamo stare anche il giorno del suo addio al calcio a San Siro con la contestazione degli ultrà. Come si può essere così beceri con un uomo che ha portato sui campi tanta sportività e bellezza?».
Bè, a lei continuano a rimproverarle lo stipendio.
«Sì. Sono il più pagato della serie A. Sei milioni e mezzo a stagione. Secondo i tifosi mi dovrei vergognare, quando non gioco bene, come se mi facesse piacere non essere sempre all’altezza. Se un cantante gira in Jaguar è figo, se ci gira un calciatore è stronzo. Non l’ho mai nascosto, quando c’era da rinnovare il contratto: gioco per chi mi dà più soldi. C’è un mercato, c’è un valore, non rubo. Se Madonna guadagna tanto significa che è brava, se lo fa un calciatore è solo un mangiasoldi. Per i tifosi dovresti sempre strisciare e batterti il petto. Ti considerano una loro proprietà: se perdi e giochi male hai rovinato e distrutto la loro vita. Altro che guadagnare, devi pagare. Di una cosa sono fiero, quando sotto la gestione Zeman non giocavo, non ho fatto polemiche, mi sono piaciuto moralmente, non sul campo».
Con 15 gol è l’uomo più prolifico di questa nazionale.
«Non lo sapevo. Quest’anno nella Roma ne ho segnato solo uno, all’inizio. È che la mia posizione è cambiata, ora gioco più indietro, e se stai lontano dalla porta avversaria sicuramente hai meno occasioni. Non mi dispiace, non sono mai stato un egoista».
Lei a chi telefona prima della partita?
«Alla mia compagna Sarah, attrice. Le dico: amò, sto entrando in campo. Se non lo faccio mi ritrovo 50 sue chiamate durante i 90 minuti. E la sera del derby la domanda: che hai fatto oggi? Mi piace che abbia un suo mondo, una sua creatività e una sua indipendenza. Ho visto come lavorano gli attori, non è per niente facile: hanno orari, disciplina, ritmi. Certo, se sbagliano una scena, possono rifarla. Noi no».
Sull’uso dei social durante i mondiali?
«Ne abbiamo parlato con Prandelli. Abbiamo la libertà di farlo, possiamo esprimerci, nei limiti del buon senso. Personalmente non capisco l’utilità di stare sempre connessi, di far sapere agli altri cosa pensi di un terremoto, di un incidente, di Mandela, che pure ho sempre ammirato, di una guerra. A chi frega il tuo pensiero, ammesso che tu ne abbia e ne possa sempre avere uno? Hai un compagno che si è fatto male? Ma che gli twitti a fare? Non è meglio chiamarlo al telefono? Parlarci, sentire cosa lui ha da dire. E magari andarlo a trovare appena puoi? Invece di postare che regali due limoni agli orfani serbi, non è meglio che mandi soldi in silenzio?».
Balotelli ce la farà a essere un azzurro da amare?
«Io non ho brutte sensazioni sul mondiale in Brasile. Soffriremo, ma siamo una nazionale che ha esperienza e sa compattarsi nelle difficoltà. Suderemo, e il girone sarà il nostro banco di prova. Ah sì, Mario. Esagera, qualche stupidaggine la fa. In un momento di crisi come questo se giri in Ferrari non susciti molte simpatie. Ma ai tifosi dico: com’è che Balotelli è nero solo quando c’è da contestarlo? Perché quando segna nessuno lo scansa e tutti lo vogliono? Scommettiamo che se ai mondiali segnerà un gol a partita nessuno farà più caso al colore della pelle? Anzi, saremo orgogliosi di avere un italiano come lui».

Emanuela Audisio, la Repubblica 6/6/2014