Giancarlo Perna, Lettera43 6/6/2014, 6 giugno 2014
PATUELLI, PROFILO DEL PRESIDENTE DELL’ABI
Nessuno più di Antonio Patuelli sapeva quanto fosse scottante la poltrona di presidente dell’Abi. Quando ci salì, un anno e mezzo fa (fine gennaio 2013), trovò un braciere. Gli era toccato infilarsi di corsa al posto di Giuseppe Mussari, impegolato nella faccenda di Montepaschi. Fu accolto come salvatore della patria e votato all’unanimità.
Eppure di fronte alla prima prova seria della sua presidenza - l’arresto del vice, Giovanni Berneschi - Patuelli è stato comico. Le accuse contro Berneschi, ex presidente di Banca Carige, sono gravi: si sarebbe appropriato di denari delle Banca. Ma Antonio, colto alla sprovvista - cosa che già la dice lunga sulla trasparenza e vigilanza di quel mondo -, non ha saputo che pesci prendere. Prima ha detto che bisognava approfondire e che, nell’attesa, Berneschi restava al suo posto. Poi, capito che la procura di Genova aveva filo da tessere, ha annunciato la sostituzione di Berneschi. Intanto, ammetteva di essere sconcertato. Infine, quando ha saputo che la procura aveva spedito Berneschi in carcere (nonostante le 77 primavere) perché dai domiciliari depistava le indagini, si è svegliato.
Ha messo a fuoco i rischi di immagine che correva ed è passato all’azione. Ma anziché annunciare nuove regole, vaglio più severo dei curricula e cose così, si è buttato sulla retorica moralistica. «Il livello etico del Paese è assolutamente inadeguato», ha sdottorato davanti ai giornalisti esterrefatti. «Troppa evasione fiscale, l’Italia è Nerolandia. Tutti noi, il popolo degli onesti, dobbiamo fare sforzi maggiori, insieme alle istituzioni». Insomma, si è impancato. Proprio lui che incarnava un ente (l’Abi) e un mondo (le banche) che erano sul banco degli imputati. Per di più, prendendosela con i cittadini evasori anziché con le disonestà dei banchieri. Insomma, ha fatto una figura mediocre, com’è sempre mediocre chiedere asilo alla retorica.
Il 63enne Patuelli, bolognese di nascita e ravennate di elezione, non è un uomo da affrontare gli intoppi a brutto muso. Di colta e agiata famiglia di imprenditori agricoli, Antonio ama le forme - che fanno a pugni con le battaglie all’ultimo sangue - e i riconoscimenti sociali. Ha voluto con energia il Cavalierato del Lavoro, ottenuto nel 2009, ed è membro di una serie di Accademie (Agricoltura, Georgofili, Incamminati) che soddisfano il suo gusto per la tuba e il tight.
Nei ritagli, scrive libri sul Risorgimento, dirige una rivista di studi liberali, Libro Aperto, ed è editorialista del gruppo Riffeser (Quotidiano nazionale, Nazione, Resto del Carlino). Tutte cose che gli danno un’aureola di levità borghese. Rafforzata da un eccellente matrimonio che lo ha imparentato con una famiglia di ammiragli, una solida ricchezza finanziaria - che ne fa il primo azionista privato della Cassa di Risparmio di Ravenna, di cui è da anni presidente - e da proprietà terriere ereditate dal padre, professore di Diritto e agricoltore. Questo tripudio di bambagia non significa però che Antonio sia un mollaccione. Al contrario, è un tritasassi con una capacità non comune di cambiare esperienze, gettandosi alle spalle senza rimpianti quelle concluse.
Laureato in Legge a Firenze, soggiorno che lo legò di amicizia con Giovanni Spadolini, Patuelli ha esordito nella politica nazionale come segretario della Gioventù liberale. Vinse il congresso degli Imberbi (1976) battendo un rivale di rilievo, Massimo De Leonardis, oggi illustre docente di Storia contemporanea.
Era schierato con la sinistra del Pli di Valerio Zanone che nel 1983 lo fece eleggere alla Camera. Qui si spogliò abilmente di quella prima casacca, tanto che nel 1985 divenne vicesegretario del Pli con Alfredo Biondi, che di Zanone era rivale.
Con lui furono nominati vice Enzo Palumbo e Raffaele Morelli. Il trio fu detto dei «tre porcellini». Patuelli non si adontò per il nome ma volle precisare che, dei tre simpatici suinetti, lui non era «né Timmy, né Tommy ma Gimmy, quello furbo».
Nel 1987 non fu rieletto, però nessuno se ne accorse perché Antonio continuò a circolare per Montecitorio e tutti lo credevano ancora deputato. Era invece modesto consigliere comunale a Bologna, ma nelle sue continue capatine in Transatlantico rilasciava dichiarazioni ai cronisti parlamentari sul Pli e l’universo mondo riuscendo a tenere vivissimo il suo ricordo. Nel 1992 fu rieletto, senza che a nessuno venisse in mente che c’era stato un intervallo.
Il mondo era ormai cambiato con Tangentopoli. Patuelli fece appena in tempo a diventare sottosegretario alla Difesa del governo Ciampi quando gli arrivò un avviso di garanzia. Era sospettato di avere preso 30 milioni di lire (15 mila euro) da una società farmaceutica. Pur affermando la piena regolarità del contributo, Patuelli si dimise dal governo.
Qualche tempo dopo fu prosciolto. Ma, scaduta in anticipo nel ’94 la legislatura, non volle ripresentarsi a quella successiva. Se ne dispiacque molto Spadolini e Cossiga, suo estimatore, minacciò di prenderlo a pedate. Antonio fu però irremovibile e con la politica chiuse drasticamente.
Da allora, non fu più rivisto in Transatlantico. Di questa rarissima fermezza, gli va dato atto.
Il nuovo capitolo, ormai quasi ventennale, di banchiere è ancora aperto. Qualcosa abbiamo accennato. Per il resto, chi vivrà vedrà.