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 2014  giugno 06 Venerdì calendario

COSÌ FU COPERTO IL DELITTO CHE FECE NERA L’ITALIA


Che fine ha fatto quella lima? Per quante e quali mani è passata? E, posto che non sia andata perduta o non sia stata intenzionalmente distrutta, dov’è nascosta oggi? È possibile che qualcuno, a quasi cent’anni di distanza, la conservi ancora come un macabro trofeo?
Chissà se un giorno, come fu per il mitra usato dal partigiano Walter Audisio per giustiziare Mussolini, riapparso nel 2004 in un museo albanese, si dissolverà l’enigma sulla raspa di ferro che fu un “cimelio glorioso” per tanti fascisti della prima ora. Se ne persero le tracce un po’ di tempo dopo che era stata comprata all’asta dei corpi di reato da un maggiore della milizia, Francesco Grigi, orgoglioso di esibirla con i suoi camerati perché era lo strumento con cui a 39 anni era stato eliminato Giacomo Matteotti, il più coraggioso, lucido e intransigente avversario del regime nascente.

L’arma del delitto. Così si disse dell’attrezzo che era stato conficcato in terra sopra il cadavere, sepolto in modo sbrigativo in una macchia alla Quartarella, periferia di Roma. Era una versione falsa. E molti hanno voluto accettarla, durante il fascismo, diffondendo il teorema dell’assassinio “per errore”, il 10 giugno 1924. Il sequestro del deputato socialista sul lungotevere Arnaldo da Brescia, si sosteneva, doveva essere un’azione dimostrativa. Dura, ma non letale. L’imprevista reazione dell’ostaggio aveva però costretto uno dei rapitori, Albino Volpi o forse Amleto Poveromo, a impugnare il primo oggetto trovato in macchina – la lima, appunto – e a neutralizzarlo colpendolo più volte con quella, mentre l’auto dentro la quale era stato caricato a forza sotto gli occhi di diversi testimoni attraversava la città. Niente più che un incidente. Comunque “provvidenziale”, per gli squadristi.
Ecco come, stando al messaggio dettato dallo stesso Mussolini alla rivista Gerarchia, «la beffa divenne orribile tragedia indipendentemente, anzi, contro la volontà degli autori». L’avvertimento era lanciato e l’interpretazione minimalista subito accolta. Gli imputati del delitto, già derubricato in istruttoria come omicidio preterintenzionale, videro alleggerita la loro posizione da diverse attenuanti e furono sanzionati con pene irrisorie al primo processo, la farsa giudiziaria andata in scena nel 1926 a Chieti.
Purtroppo vi si adeguò, accomodandosi alla direzione presa dalla storia e per sopire problemi di coscienza, larga parte di una società civile che – oggi come allora – spesso si dimostra incivile. Non per coincidenza un maestro del diritto, l’Accademico d’Italia Vincenzo Manzini, definì l’agguato «un incerto del mestiere di demagogo», capitato a un uomo che «si era posto nella condizione di vivere pericolosamente». Gli autori erano, secondo un foglio fascista abruzzese, le «vittime pazienti delle più infami turpitudini di un antifascismo» che aveva orchestrato una campagna malvagia… i valorosi «campioni di un fascismo certamente violento perché rivoluzionario, perché acceso e selvaggio, audace e guerresco». Parole d’ordine che assolvevano pure colui che, anche se manca la cosiddetta pistola fumante, era con ogni evidenza stato il mandante almeno morale della missione «degenerata al di là delle intenzioni». Il duce.

La difesa. Insomma, Matteotti se l’era cercata. E i suoi sicari, cinque contro uno, rei confessi, dovevano pur difendersi, no? Era stata una disgrazia, obiettarono in aula. Provocata dalla «debole costituzione fisica della vittima» o forse da un suo sbocco di “emottisi”, dato che era tubercolotico. «Verità» grottesche, che sono resistite fino alla caduta del regime, intossicando quanto bastava tante successive rievocazioni storiche. Infatti, persino Montanelli, che pur coltivava la prassi di una revisione permanente della storia, dopo una cena con Dino Grandi annotò nel suo diario di credere ancora – e si era nel 1966 – nella vulgata di «una lezione finita male».
E invece, altro che lima. La menzogna era stata ufficialmente smascherata già pochi giorni dopo il ritrovamento – pilotato – del cadavere, il 16 agosto, mentre gli italiani erano distratti dalle vacanze e la Camera e il Senato chiusi. Bastava, e basta, leggersi la perizia di Angelo Bellussi e Giuseppe Massari, i medici legali che ebbero l’incarico di analizzare quei resti, a due mesi dalla morte. Un documento (custodito tra le carte dell’Archivio Matteotti, presso la Fondazione Turati) decisivo per la ricostruzione del crimine, di cui al processo echeggiarono solo i passaggi più incerti e apparentemente evasivi, citati dal procuratore generale, riportati dai giornali e mutuati con pigrizia da parecchi storici. Un testo che nella sua interezza resta pressoché inedito. «Tutti i dati a nostra disposizione dimostrano che la lima non fu adoperata contro il corpo della vittima quando era viva né contro il cadavere», scrissero gli anatomo-patologi. Aggiungendo che, per le macchie di sangue e per il tipo di ferite, «l’ipotesi più probabile» era che di quello «istrumento ci si servì per scavare la fossa» e che là fosse stato «abbandonato».
Il delitto, per loro, fu compiuto «con un’arma da punta e taglio», cioè un coltello, magari uno di quei pugnali cari agli arditi, e definirono «inverosimile» qualsiasi altra ipotesi. Se non fosse sufficiente questo, sarebbe comunque risolutivo il memoriale che l’imputato chiave del processo, Amerigo Dumini, affidò il 7 gennaio 1933 (come un’assicurazione sulla vita) a uno studio di avvocati statunitensi, e che è stato desecretato soltanto a metà degli anni Ottanta. Verbalizzava in quella sorta di testamento Dumini, capo del commando, la cosiddetta Ceka del Viminale, dopo aver seminato numerose false tracce: «Necessario era nel modo più assoluto mettere Matteotti, e prestissimo, in condizione di non più parlare, di scomparire anzi per sempre, non doversi ritrovare mai più, né vivo né morto». E ancora: «Non potendo bruciare il cadavere, perché cosa troppo lunga e soggetta a sorprese da parte di estranei, fu deciso di seppellirlo… in modo affrettato e incompleto» nel primo luogo un po’ nascosto, e non «nella località indicata da Marinelli, ove già era apprestata la fossa di calce» (ma precisa che «il passaggio del dazio per arrivarvi sarebbe stato sommamente pericoloso»). E chiude con un cenno inequivocabile: «Lo sventurato era stato ucciso per ordine Suo». Di Mussolini. Che, senza di lui in Parlamento, ebbe la strada spianata per infeudare la dittatura attraverso le leggi fascistissime.

Tre morti tinte di giallo. Un caso chiuso che sembra destinato a essere continuamente riaperto, quello di Matteotti. Come succede per la tragedia di Aldo Moro o per l’esecuzione di Benito Mussolini, protagonisti degli altri due grandi gialli politici italiani del Novecento. Misteri sui quali esiste una sterminata letteratura storica e dentro i quali si scava con interpretazioni a corrente alternata tra il rigoroso (ma magari ancora insufficiente) e il deformato (per volontà di confondere). Una rincorsa di approssimazioni e mistificazioni giocate a volte seminando ambiguità interessate, in linea con l’eterna vocazione a sporcare anche il poco di nobile, onesto e pulito che rimane nella parabola civile del nostro Paese. Inquinamenti deliberati sia per quanto riguarda la vittima e la sua famiglia, sia per il mandante, sia per la matrice del delitto. Per fare un esempio: alcuni anni fa si è tornati a proporre i comunisti russi tra gli ispiratori del delitto di quell’uomo malato di «moralismo fanatico» – e in questa definizione si capisce quale rispetto gli si attribuisca – con la solita, evidente pretesa di offrire un’assoluzione postuma al capo del fascismo e di far dimenticare come avesse coperto e protetto gli assassini.
Tra tanti scenari, più o meno fantasiosi, suggestivi e attendibili, qualcuno (Mauro Canali, nel 1997) ha ricominciato a esplorare, lavorando su un vasto impianto di nuovi dossier, la pista di una tangentopoli in camicia nera. Un affaire petrolifero che Matteotti, dopo aver denunciato nel celebre e drammatico discorso alla Camera i brogli e le violenze degli squadristi nelle elezioni del ’24, si sarebbe preparato a rendere noto e nel quale erano coinvolti alti gerarchi. Un controverso sfondo di malversazioni e intrighi internazionali che sembrò colpire pure Matteo Matteotti, uno dei tre figli di Giacomo.

La ricerca storica. In attesa di ulteriori verifiche e approdi, possibilità da non escludere se si considera la sparizione della borsa di documenti che il segretario socialista aveva con sé al momento del sequestro, la maniera più seria di onorare Matteotti è forse quella di riscoprirlo nella dimensione di uomo e politico, troppo soverchiata dall’immagine del martire del totalitarismo, sfogliando i suoi scritti. Una base per capirlo e in cui tutto si tiene, pensiero e azione.
Da più di trent’anni vi si dedica Stefano Caretti, docente di storia contemporanea all’università di Siena, curatore di una monumentale opera omnia giunta proprio ora al dodicesimo, e ultimo, volume, pubblicato in edizione critica insieme agli altri da Nistri-Lischi e poi dalla Pisa University Press (con il patrocinio dell’Associazione nazionale Sandro Pertini e della Fondazione Turati). Pagine dalle quali esce il Matteotti vivo. Ossia, attraverso l’epistolario con la moglie Velia, il marito e il padre affettuoso. L’intellettuale che coltivava senza provincialismo gli studi europei sul diritto e sull’economia (fu tra i primi, in Italia, a scoprire Keynes). L’amministratore e il politico tenacemente riformista, ansioso di edificare un mondo più libero e giusto proprio mentre prevalevano settarismo e massimalismo. Il leader risoluto, pronto a misurarsi con le esperienze democratiche in corso altrove, ma non a cedere sui princìpi e, guardacaso, al Togliatti che lo esortava a partecipare a una manifestazione unitaria con il Pc, rispose con un duro autoritratto: «Restiamo ognuno quello che siamo. Voi siete comunisti per la dittatura e per il metodo della violenza sulle minoranze; noi siamo socialisti e per il metodo delle libere maggioranze».
Una figura di grande riverbero per la morte atroce, di cui parlò tutto il mondo e che smascherò la vera natura del fascismo. Dopo la liberazione il suo nome fu inserito nel pantheon dei padri della patria ed è fra i più citati nella toponomastica nazionale. «Eppure», osserva Caretti, «resta una figura poco studiata e trascurata dalla stessa tradizione culturale e storiografia antifascista, divisa in famiglie partitiche nelle quali ciascuno coltivava anzitutto la memoria dei propri martiri». A costo di lasciar passare, quasi senza contrastarla, perfino la ridicola faccenda della lima che, per sbaglio, «aveva ucciso Matteotti».
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